Negli ultimi giorni ho sottolineato come i principali quotidiani italiani abbiano affrontato il dibattito sul nucleare il maniera sostanzialmente unilaterale, riportando tutte le informazioni utili a incrementare il campo dei contrari e tacendo invece quelle che potevano indurre a ragionamenti più obiettivi.
Immaginate dunque la mia sorpresa di ieri mattina quando ho trovato ben due articoli, pubblicati su due diverse testate, che riportano la discussione sul piano scientifico abbandonando la via della “crociata antinuclearista” basata su fattori esclusivamente emotivi.
Il primo di essi è apparso sul Corriere della Sera, a firma del Professore emerito dell’Università di Padova Renato Angelo Ricci. Dopo aver sottolineato come solo grazie alle 44 centrali ancora in funzione il Giappone potrà avere l’energia sufficiente ad affrontare la ricostruzione post- tsunami, il Professor Ricci arriva al cuore del problema: l’approccio culturale. E qui cito letteralmente: “In effetti il rischio e quindi la legittima paura, è percepito tanto più grande quanto più grande è l’ignoranza delle reali e misurabili conseguenze. E il caso della radioattività è emblematico…Il rapporto rischi/benefici, nel caso del nucleare, viene completamente invertito: si sottostimano i vantaggi e se ne sopravvalutano i rischi… Il fatto è che il difetto di cultura scientifica adeguata lascia l’opinione pubblica nell’impressione che il rischio da radiazioni sia incommensurabilmente più elevato da quanto possa essere espresso dai dati scientifici.”
E ciò introduce il secondo articolo a cui faccio riferimento, che è stato pubblicato da Il Giornale all’interno della rubrica “L’angolo di Granzotto”. Rispondendo a una lettera inviatagli da un lettore, Paolo Granzotto afferma: “è davvero indegno che ogni volta che si parla di nucleare demonizzandolo nessuno si prende la briga di squadernare un po’ di dati certi e scientifici che smentiscono la sedicente portata catastrofica, apocalittica e sterminatrice – il noto olocausto nucleare – della fuoriuscita radioattiva da centrali mal funzionanti o danneggiate da eventi naturali”. Così facendo, potremmo infatti scoprire che dei 50.000 sopravvissuti alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, meno del 2% è deceduto per patologie causate delle radiazioni. E che, tra chi di quei 50.000 aveva meno di 20 anni nel 1945, oltre il 90% era ancora vivo nel 1990.
E passando a un fatto più recente, lo “spauracchio Chernobyl”, scopriremmo che i morti accertati furono 65 e tutti all’interno del reattore mentre Greenpeace vaticinava allora 6 milioni di morti in tutta Europa.
In conclusione, ciò che emerge dalla lettura dei due articoli è che forse c’è ancora qualcuno pronto a discutere sulla base di dati e di numeri usando la ragione. Il cui sonno, come sappiamo, genera mostri. Molto peggiori dell’energia nucleare, che un mostro proprio non è.
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