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I salafiti in ascesa nell’Egitto del golpe laico

Creato il 11 luglio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
I salafiti in ascesa nell’Egitto del golpe laico

L’unico segnale positivo per la transizione è stato il via libera dei salafiti del partito al-Nour (il secondo movimento islamista egiziano più importante dopo la Fratellanza Musulmana) alla designazione dell’ex ministro delle Finanze Samir Radwan come premier ad interim. Evidentemente questa approvazione appare come una sorta di segnale dell’inizio di una nuova strategia di al-Nour, perché fino all’altro ieri i Salafiti avevano fermato tutto. Dopo aver appoggiato la destituzione di Mohamed Morsi, si erano opposti alla elezione a premier del premio Nobel per la Pace Mohamed El-Baradei, e poi a quella dell’economista Ziad Baha el-Din. «La nomina di el-Baradei contraddice gli accordi della roadmap», aveva spiegato Ahmed Khalil, il vice del partito. In altre parole, l’ex direttore dell’agenzia atomica dell’Onu è troppo laico e razionalista per l’al-Nour che esige la Sharia nella Costituzione, che nel pieno della crisi economica in Parlamento presentava leggi per vietare il bikini alle turiste straniere sul Mar Rosso, che vuole escludere le donne e i cristiani dalle cariche governative.

Beninteso, in Egitto essi non sono violenti e armati come i salafiti in Tunisia e in Siria, ma sono sempre degli estremisti e perciò poco inclini al compromesso. Fanno parte del fronte di piazza Tahrir con i giovani Tamarrud soltanto per concorrenza islamica con la Fratellanza: pensano sia il modo migliore per conquistare i cuori e le menti dei tanti musulmani egiziani delusi da Morsi. Il richiamo alla purezza dell’Islam dei primordi da parte di un movimento come quello dei Salafiti che conta secoli di Storia non è argomento di poca suggestione per tutti quei credenti che devono confrontarsi con la corruzione e le storture del consumismo. Anche nel “laico” Egitto.

Infatti “Salaf”, da cui viene il termine salafiti, significa “fede antica”, quella che caratterizza il mito fondativo dell’Islam incentrato sull’assoluta coincidenza tra religione e politica. Il movimento dei salafiti propugna quindi un ritorno alle origini, alla purezza dell’insegnamento dell’Islam scarnificato da tutte le influenze provenienti dal mondo occidentale cristiano e, peggio ancora, ateo. Sicché il movimento non può esser considerato nazionalista perché esso si batte contro i nazionalismi, in sintonia con i precetti dell’Islam che non si plasmano su questa o quella realtà nazionale, bensì sono diffusi – essi sostengono – dagli aridi deserti dell’Arabia ai campus universitari europei. Pertanto la visione dei salafiti è tutta internazionalista dal momento che Allah non fa distinzioni fra le nazioni, in quanto l’Islam non è la religione di un solo popolo, ma lo è dell’ intera umanità. Da qui il “terrore” per la proliferazione del movimento ora definito (New York Times): «uno dei prodotti più sottovalutati e inquietanti delle rivolte arabe», e quindi, «più pericoloso di qualunque altro per gli interessi occidentali in Medio Oriente».

Non a caso il movimento è quello che registra la crescita più rapida non soltanto in Egitto e in Tunisia bensì in tutto il Medio Oriente. Poiché come scrisse Mustafa Salama sul Daily News, l’unico quotidiano egiziano in lingua inglese: «La galassia salafita è composita. Ha accettato anche di misurarsi con i processi elettorali dalle Primavere arabe dimostrando così di non essere contraria alla democrazie. Diciamo che la loro preoccupazione prioritaria è di salvare l’Islam delle origini». Infatti, un pezzo da novanta salafita come Sheikh Salman Al-Ouda, autorevole membro dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani, dalla sua sede in Arabia Saudita ha spiegato sulla sua pagina di facebook com’è valutata la democrazia nel “salafita style”: «Essa non può essere il sistema ideale, ma è il meno dannoso e può essere sviluppato e adattato per rispondere a delle esigenze locali, o a delle circostanze».

Un impegno che i Fratelli Musulmani non hanno saputo assolvere. Infatti i salafiti (e non soltanto loro) rimproverano all’ex governo Morsi di aver fatto poco o nulla per risanare le distorsioni della struttura statale che esso aveva ereditato. L’accusa è di non avere processato i molti funzionari corrotti del governo di Mubarak, ubbidendo così agli ordini del «principale sostenitore della dittatura: gli Stati Uniti». Inoltre, – altra accusa – è di aver continuato la politica estera di Mubarak, «favorendo Israele a spese dei palestinesi, e favorendo i ribelli siriani appoggiati dagli USA contro il governo siriano di Assad». Insomma, così manovrando la Fratellanza Musulmana avrebbe continuato a servire gli interessi delle élites dimenticandosi delle esigenze di milioni di egiziani. Stando così le cose non c’è da stupirsi se i salafiti si sono rivelati i veri protagonisti di queste drammatiche giornate, forti di un consenso popolare che si sono conquistati durante i processi di democratizzazione, come dimostra quel 25 per cento di voti strappato alla Fratellanza alle elezioni dell’anno scorso.

Un successo che aveva premiato un impegno da tutti riconosciuto, perché quando la rivoluzione del 2011 era al culmine e milioni di dimostranti contrari a Mubarak si erano spinti a Piazza Tahrir forte era la presenza salafita. La dirigenza della Fratellanza invece a Tahrir non vi era mai scesa preferendo la ricerca di un compromesso con la dittatura. Sicché nella piazza si erano ritrovati i laici del movimento sindacale – specialmente i lavoratori tessili di Mahalla, una città a nord del Cairo – e naturalmente i Salafiti con le bandiere verdi dell’Islam. Questo spiega perché il controllo salafita delle moschee, delle scuole, dei costumi, delle aree di contropotere sta crescendo da un anno a questa parte in maniera esponenziale. Sicché il richiamo alla purezza dell’Islam dei primordi che i salafiti perorano è diventato – ripeto – un argomento di grande suggestione per larghi strati della società egiziana la quale teme che, con il blocco del processo democratico che s’era iniziato con le elezioni e la vittoria di Morsi, venga meno quell’equilibrio tra le diverse forze sociali che la militanza religiosa sovrintende, regola e garantisce.

Naturalmente, il nuovo premier El Beblawi è un laico. E’un economista di orientamento liberale. Fece parte dell’esecutivo di transizione del dopo-Mubarak, guidato da Essam Sharaf, ed è inoltre tra i fondatori del Partito socialdemocratico egiziano, uno dei diversi gruppi che fanno parte del Fronte di salvezza nazionale. Beninteso il Fronte ha appoggiato i giovani attivisti che la scorsa settimana hanno promosso le massicce manifestazioni per chiedere la destituzione di Morsi dalla presidenza. Ma è nulla a confronto del partito al-Nour, che rappresenta un movimento decisamente impegnato nel confronto con l’Occidente non musulmano con una storia risalente a prima dell’anno Mille, quando Ahmad ibn Hanbal (Baghdad, 780 – 855) teologo e giureconsulto arabo fondò una delle quattro grandi scuole giuridiche sunnite (l’hanbalismo), e divenne l’ispiratore del wahhabismo, e del riformismo conservatore della Salafia.

Stando così le cose, l’ipotesi di un prossimo scenario con una “mezzaluna salafita” che si estenda dal Golfo Persico al Nord Africa non è affatto esagerata, poiché le insoddisfazioni sociali, la partecipazione comunitaria che nel secolo scorso erano espresse dalle ideologie marxista o nazionalista, si sono incanalate sui percorsi religiosi assumendone i rituali e i linguaggi. Sicché il bisogno di sicurezze, di valori “autentici”, in un’epoca così confusa e incerta, ha ritrovato nella religione un punto di riferimento. Un fenomeno che Kofi Annan, l’ex segretario delle Nazioni unite, fu tra i primi a cogliere: «In quest’epoca di globalizzazione i valori universali sono divenuti più che mai necessari. Ogni società deve essere unita da valori condivisi affinché i suoi membri siano consapevoli di ciò che possono aspettarsi gli uni dagli altri e sappiano che esistono dei principi fondamentali, capaci di armonizzare in modo incruento le differenzem sociali». Certamente non si riferiva al nuovo ordine mondiale disegnato dalle esigenze del mercato e dell’economia.

Dopotutto non occorrono studi profondi per capire che l’Islam così com’è strutturato non è incline al compromesso con il capitalismo ed è ben difficile che esso vi tenti in un prossimo futuro, in mancanza anche di una società civile come noi l’intendiamo che non è mai potuta nascere, perché il Corano non la prevede. Infatti i Fratelli Musulmani hanno cercato di conciliare Islam e capitalismo, ma sono stati incapaci di raggrumare le forze necessarie per concretizzare il progetto. Insomma non gli hanno dato spazio, gli è mancato il sostegno occidentale. Dopo tutto in Egitto forte è l’ingerenza degli Stati Uniti, i quali con l’assegno annuale di un miliardo e mezzo con cui sostengono l’esercito, fanno dei militari la vera realtà sociale garantita in Egitto, uno Stato nello Stato che «se si muove lo fa solo per difendere i propri interessi», come sostiene Al-Aswani, lo scrittore che è stato prima il fustigatore del regime di Mubarak e poi del governo della Fratellanza Musulmana.

Pertanto gli Stati Uniti, foraggiando le Forze armate, hanno condizionato la presidenza Morsi, obbligandola a rispettare i trattati di pace che l’Egitto di Mubarak aveva siglato con Israele, vale a dire sacralizzando lo status quo del dominante a scapito dei palestinesi dominati, e inoltre impegnando Il Cairo, a fianco dell’Arabia saudita e del Qatar, in una politica di pericoloso sostegno del jihad sunnita anti-Assad in Siria. Un condizionamento che i Salafiti rimproverano a Morsi, poiché esso l’ha costretto a sostenere le politiche economiche capitalistiche filo-occidentali a favore del FMI dominato dalle grandi banche, e ad accantonare le misure reali per affrontare la crisi della disoccupazione e della massiccia disuguaglianza in Egitto, nate dalle precedenti politiche di privatizzazione neoliberiste avallate da Mubarak. Insomma l’accusa che i Salafiti muovono alla Fratellanza è che appoggiando l’élite egiziana e i gruppi di potere occidentali che la sostiene hanno fatto fallire la più importante affermazione elettorale dell’islamismo politico. Sicché il rischio è – sostengono i salafiti – che l’Islam non sia più l’ obiettivo di milioni di persone in tutto il Medio Oriente, e che le genti si orientino verso quelle forze politiche laiche sostenute dall’Occidente.

Naturalmente, come usa dire, i Salafiti non se ne staranno con le mani in mano. Già lo si vede. Essi si propongono alle masse dei manifestanti di piazza Tahrir come la nuova risposta religiosa all’ambiguo laicismo sventolato dagli americani e dai loro alleati, al rigorismo settario dei sauditi, a Israele che incoraggia il massacro in Siria e pretende una resa dei conti con l’Iran. Tuttavia molti sono i media occidentali (italiani inclusi) che ancora li dipingono come puro folclore sebbene sia una tesi – nell’éra di Twitter e del web - difficile da sostenere. Ma, come scriveva Giacinto de’ Sivo (1814-1867), «Il volgo s’annoia a pensare, e volentieri s’acconcia alle idee altrui; così pochi scaltri fanno l’opinione che si dice pubblica, e partorisce ruine».


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