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Iniziamo dai difetti di questo film. È un film decisamente molto, forse troppo americano, sia nella confezione sia nella sceneggiatura, che appare un po’ troppo didascalica per i miei gusti. I protagonisti tendono in alcuni momenti al macchiettismo, o a interpretare una categoria psicologica troppo riconoscibile per essere completamente credibile. In generale, l’intera narrazione è tutta parecchio sopra le righe, così come la recitazione, in linea probabilmente con certo stile americano.
Ciò detto, devo confessare che – depurato da qualche forzatura e semplificazione – ho trovato il film molto centrato sul tema della famiglia, capace di metterne a nudo alcune dinamiche perverse a cui tutti noi – chi più chi meno – abbiamo dovuto e dobbiamo far fronte.
Fa parte della storia di ognuno confrontarsi con il modo di essere dei propri genitori. Ciascuno di noi è in qualche modo l’esito e la risposta a questi modi di essere (che a loro volta sono il risultato della loro storia personale e familiare), nella maniera unica ed originale in cui queste modalità si innestano sul proprio apparato caratteriale ed evolvono in relazione alle nostre esperienze.
Una madre come quella portata in scena da Meryl Streep è una madre che in nessun modo può lasciare indifferente il mondo circostante, nella durezza con cui riversa su di esso le proprie fragilità e il proprio bisogno insaziabile di affetto, trasformandoli in aggressività e disprezzo per i componenti della sua famiglia. Di fronte a cotanta madre ognuno fa quello che può: suo marito porta avanti il suo compito fino in fondo e poi decide di uscire di scena, sua sorella non riesce a fare pace con il senso di colpa, le sue figlie rispondono chi con la stessa aggressività e durezza (riproducendo dunque nella propria vita le stesse dinamiche materne e finendone in qualche modo schiacciate), chi con una patologica ingenuità che in qualche modo è funzionale alla sopravvivenza, chi con una passività e un vittimismo che si portano dietro dolore e frustrazione.
Come si dice spesso, la famiglia non ce la scegliamo e in molti casi è composta da persone che probabilmente non avremmo scelto in una libera dinamica relazionale. La famiglia, intesa soprattutto come legame di sangue, è però anche l’unico legame che non può essere veramente reciso. Si può divorziare da un marito, si può decidere di cambiare compagno o amici, ma non si può divorziare dai propri genitori o dai propri fratelli. Anche quando si decide volontariamente di allontanarsene, il legame con loro continua ad agire sotterraneamente nella nostra vita, senza lasciarci veramente liberi.
È per questo che ognuno di noi nel proprio personale percorso di maturazione, nella faticosa ricerca di un equilibrio con il mondo circostante, nella propria personale via verso quella seconda nascita che ci rivela davvero chi siamo (e non quello che la nostra famiglia e il mondo avrebbero voluto che fossimo), deve avere il coraggio di affrontare e sciogliere questo nodo, ossia riconoscere e fare pace con l’impronta familiare che ci porteremo dietro per sempre, ma anche guardare il proprio io più profondo, dargli spazio, creargli un ambiente che gli consenta di respirare e crescere. Ognuno di noi è chiamato a trovare il suo modo: c’è chi lo fa allontanandosi e chi restando vicino, chi rifiutando e chi accettando, chi rielaborando e chi prendendo le cose come sono.
Ebbene, I segreti di Osage County è uno di quei film che – pur non essendo cinematograficamente del tutto convincenti – ci aiuta a ricordarci quanto c’è di universale e di profondamente umano anche nella fatica e nell’assurdità di certe dinamiche familiari.
Voto: 3/5
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