Uscire dall’impotenza ri-attualizzando l’antropologia del movimento cooperativo*
Miguel Benasayag
da Animazione Sociale n. 285 – settembre/ottobre 2014
Ciò che dovremmo oggi capire è come sia potuta accadere una diminuzione della potenza vitale dei soggetti. Sono molte infatti le persone che annegano nell’impotenza dell’immediato, che non reagiscono all’orrore che in varie forme avanza. Forse le ragioni sono identificabili nella mitologia neoliberista che tutti ci avvolge. Una mitologia che ci fa credere di essere tanto più liberi quanto più slegati dagli altri, dal nostro territorio. Che riduce la nostra capacità di essere toccati dalle cose intorno a noi e quindi di assumercene la responsabilità con altri. Una mitologia che è un’antropologia, la quale, mentre ci seduce, ci condanna. I semi del mondo di domani non sono qui.
Immersi nella crisi della nostra epoca, di fronte alla complessità dei fenomeni che non saremo mai in grado di capire totalmente né di governare con facilità, ci accorgiamo di quanto sia importante oggi investire nella ricerca.
Vi sono due modi di fare ricerca: uno consiste nel lavorare in contesti puramente teorici. In questo caso si affronta il tema della crisi – e delle varie forme di disagio ad essa connesse – restando chiusi in ambiti accademici. Un’altra corrente di pensiero sostiene invece che la crisi si capisce attraverso pratiche concrete. Tanto la comprensione della crisi quanto la resistenza ad essa si fanno agendo.
NELL’ASSENZA DI MODELLI SI CAPISCE AGENDO
Quest’ultima è l’opzione che condivido, anche perché in questa fase storica non disponiamo di modelli di pensiero che ci aiutino a capire i problemi e ad affrontarli.
L’esempio dei bambini di strada a Buenos Aires
Passo due o tre mesi l’anno in Argentina, a Buenos Aires, dove lavoro con un gruppo di persone che provengono da ambiti diversi e con cui cerco di capire la questione della socialità.
Uno dei problemi delle città in America Latina è l’aumento della violenza. Ci sono sempre più bambini per strada che diventano violenti, che uccidono anche. E ci sono persone che cominciano a difendersi: in Argentina, per esempio, sono arrivati dal Brasile squadroni della morte per eliminare questi bambini.
Per molto tempo le persone progressiste sono state convinte che questi problemi fossero conseguenza diretta della struttura capitalistica. E che, una volta fatta la rivoluzione, una volta raggiunto il socialismo, si sarebbero risolti. Ma questo modello di pensiero (secondo cui saranno i cambiamenti strutturali a risolvere i problemi) ha mostrato il suo limite.
Oggi in Argentina sono al potere alcuni miei compagni di lotta all’epoca della dittatura. Lo stesso accade in Brasile e in Bolivia. Ci si rende conto, però, che i problemi sono molto più complessi di quanto immaginassimo. Nessuno pensa che la rivoluzione sia alle porte e che dopo di essa tutto si risolverà, né si aspetta che accademici o militanti politici forniscano un modello da applicare. La crisi storica che stiamo vivendo può essere capita soltanto operando nel concreto.
Come a Buenos Aires, dove stiamo lavorando dentro questa orribile situazione di violenza di strada, nella quale piccoli borghesi e impiegati devono difendersi diventando anch’essi sempre più violenti. E nella quale si assiste a una recrudescenza dell’apartheid sociale.
Ecco allora che noi possiamo capire qualcosa del mondo e della società nel mentre interveniamo sui problemi. Si capisce agendo, senza dimenticare che le questioni devono essere affrontate anche da un punto di vista scientifico. Per questo continuo a cercare di capire come la crisi si sviluppa e si manifesta anche attraverso lo studio delle discipline sociali, della biologia, dell’epistemologia.
Sperimentare, questa è oggi la strada
Questo è un momento della nostra storia in cui bisogna avere il coraggio di dire che siamo a un passo dal baratro. Le nostre società e il nostro modello di vita sono sull’orlo dell’abisso. Non voglio essere apocalittico, ma il mondo è minaccioso. Come diceva Gramsci, il vecchio mondo non c’è più, il nuovo tarda a farsi vedere e in questo vuoto emergono tutti i mostri. Ma Gramsci, quando scriveva queste parole, benché in carcere, era ottimista. Infatti, dicendo «il nuovo mondo tarda a comparire», dava per scontato che comunque un nuovo mondo sarebbe comparso. Noi invece non abbiamo più questa fiducia. E credo che questo ottimismo possiamo recuperarlo solo se cerchiamo di sperimentare prassi che dimostrino che qualcosa di diverso è possibile. Non si tratta di essere ottimisti o pessimisti come atto di fede. Piuttosto è importante vedere se siamo in grado di capire nuovamente il mondo e agire su di esso. Oggi abbiamo a disposizione sufficienti modelli epistemologici per affrontare la complessità. Certo dobbiamo poi vedere se questa comprensione riesce a trovare applicazioni pratiche e concrete. Ma non ha più senso parlare di pessimismo o di ottimismo, bensì di un’altra cosa: della responsabilità di dover agire senza un dogma o un modello di riferimento. Il modello oggi sta a noi costruirlo.
COME ANNEGATI NELL’IMMEDIATO
Sulla base della mia esperienza, sono portato a dire che questa è la cosa che fa più paura agli esseri umani: ossia l’assenza di un dogma in cui credere o di un modello di riferimento a cui rifarsi.
Un tempo resistenza, oggi impotenza
Lo dico pensando alla mia esperienza: quando facevo parte della Resistenza contro la dittatura in Argentina, nei momenti più duri, più pericolosi della lotta, c’erano sempre nuove persone che si univano a noi. A volte dovevamo frenare le persone perché non avevamo più la capacità di accoglierle nella rete della Resistenza con un minimo di sicurezza. Oggi invece non rischiamo la vita e nemmeno la galera, eppure non c’è quasi nessuno che sia disposto a dare il proprio tempo e le proprie capacità per resistere all’orrore che si fa avanti.
Sappiamo bene che ci sono ovunque molti gruppi, associazioni, collettivi che si impegnano. Ma per la gran parte della gente il problema è la motivazione. Molte persone dichiarano, ad esempio, di voler creare legami sociali, lottare contro il razzismo, migliorare la società. Ma poi fra il desiderio e l’azione si frappongono ostacoli. Abbiamo fatto una ricerca a Parigi per capire i motivi immediati che vengono anteposti a ciò che si dichiara di desiderare. Le risposte sono state del tipo «perché quella sera ero a cena con mio nipote… perché ero stanco… perché avevo mal di schiena».
Queste risposte sono interessanti per chi, come me, ha visto persone che agivano consapevoli di rischiare la prigione, la tortura, la morte. All’epoca probabilmente le persone si mobilitavano perché c’era una linea da seguire, c’era un riferimento. Trovo stupefacente constatare che oggi, siccome manca una linea, un riferimento, si abbia molta più paura di quanta se ne avesse allora. C’è qualcosa in questo fenomeno che ci deve far riflettere, che ci interroga sulle ragioni per cui, nella nostra società, le persone annegano nell’impotenza dell’immediato.
Una società che ha diminuito la potenza vitale dei soggetti
Io penso che le persone oggi non si muovano anche perché la nostra società è riuscita a produrre una diminuzione della potenza vitale. Molti desiderano fare delle cose e credono sia importante farle. Ma poi c’è un muro. Un muro di «piccoli» ostacoli che impedisce di fare ciò che si vuole e si deve. E questa è una cosa che bisogna cercare di comprendere perché spesso nei collettivi, nei gruppi, si assume un atteggiamento moralistico. Si dice che non va bene disertare le riunioni, si esprime una condanna morale, ma in realtà non si tratta di una questione morale. Il punto è piuttosto capire come mai si sono interrotti certi collegamenti.
Se tocco una piastra bollente, la reazione istintiva è di togliere la mano. La reazione, cioè, è immediata e adeguata. Oggi invece viviamo in una società sempre più inquinata, che scivola verso la violenza e l’apartheid, una società dove mio figlio può essere collocato in una classe di trentaquattro alunni, e io non reagisco. Com’è possibile che succeda questo? Com’è accaduto che certi legami con il mondo si siano spezzati?
L’uomo del neoliberismo considera i legami sociali e ambientali irrilevanti per la sua vita. Non riconosce né vincoli né filiazioni, ma in questo modo non sa di condannarsi all’impotenza.
UNA MOLTITUDINE DI IO SEPARATI
Una spiegazione plausibile collega l’impotenza al prevalere di un approccio individualista centrato sull’Io. Gli europei (penso ai francesi, che conosco meglio) – a differenza di quanto avviene in America Latina – si percepiscono così: come individui assolutamente separati da un territorio, privi di qualsiasi ancoraggio. Fanno cioè molta fatica a viversi come parte di un contesto.
Non si percepisce più il legame con il contesto
Anche quando si «vogliono impegnare» in qualcosa, si tratta di un impegno del tipo «faccio qualcosa tutti i mercoledì sera per I i bambini rom». Ma queste persone, di cui si vogliono occupare, non sono qualcosa di separato dalla nostra vita. Quello che non ci si riesce a rappresentare oggi è che una parte del nostro territorio è costituita da bambini rom.
Un esempio è significativo. In Francia, Sarkozy ha affrontato il problema degli immigrati mettendo la polizia fuori dalle scuole, in modo che quando arrivavano i genitori a riprendere i bambini li si potesse arrestare. È nato allora un movimento per difendere questi bambini. Io ho proposto di fare uno studio per mostrare gli effetti psicopatologici della pratica imposta da Sarkozy. I miei interlocutori francesi pensavano che mi riferissi agli effetti sui bambini presi dalla polizia, invece io intendevo occuparmi delle conseguenze psicopatologiche sui bambini francesi che vedevano i loro compagni portati via dalla polizia.
Questo approccio ha sorpreso tutti perché per loro l’Io è quello di un francese libero e razionale, che con il suo libero arbitrio si impegna a favore dei bimbi clandestini. Io invece volevo capire quale parte del loro «territorio personale» veniva toccata quando la polizia portava via i bambini clandestini.
Riducendosi la capacità percettiva, si riduce la capacità d’impegno
E’ questa la nozione di impegno che propongo: non cercare di capire che cosa l’individuo deterritorializzato (slegato cioè dal suo tessuto sociale) può fare come scelta filantropica, ma piuttosto come la persona sia già coinvolta in ciò che succede. La mia impressione è che la cultura attuale -centrata sull’Io – riduca la nostra capacità di essere toccati da qualcosa, restringa la nostra superficie percettiva. E interessante vedere come una società possa fare in modo che gli esseri umani perdano fisicamente la capacità di essere toccati dalle cose. Ma perdere questa capacità fisiologica non significa sfuggire agli effetti dei fenomeni in cui siamo immersi e evitare di subirne le conseguenze.
In questo modo si fabbrica l’impotenza: espropriati della capacità di essere coinvolti, ci troviamo in contatto solo con la capacità di subire. Il risultato è che poco a poco un organismo può perdere il contatto attivo con ciò che lo riguarda, anche fisiologicamente, finché si arriva a un punto in cui l’organismo annega nella sua impotenza.
GUAI A SOTTOVALUTARE LA SFIDA DEL PENSIERO
Le imprese neoliberali, le grandi imprese, da molto tempo, lavorano con epistemologi, antropologi, filosofi per cercare di capire i cambiamenti in atto nella società. E’ da tempo che le imprese sanno di trovarsi in una crisi vastissima, che va capita e rispetto alla quale bisogna anche darsi il tempo per capirla. Nel movimento cooperativo, associativo e progressista, invece, ho l’impressione che si continui a sottovalutare la sfida del pensiero perché si crede di poter affrontare la crisi facendo riferimento agli schemi di sempre.
Un problema tipico della sinistra e dei movimenti
In generale, nei movimenti di sinistra, in quelli associativi, per non parlare dei partiti, si è convinti che non ci sia granché da pensare e capire. Si ritiene di aver già a disposizione una base logica di pensiero sufficiente. In realtà non è così, anzi la sinistra, proprio per motivi epistemologici e strutturali molto concreti, è nelle peggiori condizioni possibili per capire la crisi attuale. Perché la sinistra ha sempre scommesso sulla razionalità (delle idee e dei valori) per comprendere e trasformare il reale. E ha sempre considerato l’irrazionalità come frutto dell’oppressione, di qualcosa che non funzionava, un’anomalia.
La destra invece ha sempre compreso che l’uomo è costituito da una parte irrazionale molto importante. Ha capito che nessuno compra una macchina per la macchina in sé, piuttosto compra la bella modella che è sopra la macchina. Le persone non comprano un fuoristrada, ma la potenza del fuoristrada. Comprano cioè un sacco di cose immaginarie, e poi, nel frattempo, anche una macchina. L’ideologia neoliberista questa cosa la sa da tempo e la usa efficacemente, anche in politica, mentre la sinistra continua a insistere sul fatto di voler comprendere tutto razionalmente. Per cui se si ha bisogno di una macchina ci vuole una utilitaria, perché la macchina serve solo a spostarsi.
Una sfida da assumere, se si vuole far esistere un’altra idea di mondo
Questo è un argomento su cui dovremmo fare attenzione, perché viviamo in un mondo nel quale l’irrazionale è sempre più presente. Il mondo in cui viviamo si comincia a capirlo un po’ considerando l’irrazionalità come un elemento della realtà (un ingrediente che i modelli classici di pensiero, anche economici, non contemplano).
In Francia faccio parte di movimenti ecologisti radicali e, naturalmente, si parla anche del movimento della decrescita che ha il suo riferimento in Serge Latouche. Un difetto fondamentale della teoria della decrescita è che sistematicamente tende alla moralizzazione del consumo. Il movimento dice «noi possiamo vivere con pochissimo, possiamo riciclare l’acqua, ecc.». Si cerca cioè di mostrare un modo di vivere e agire alternativo, che però è moralizzante. Con la conseguenza che le esperienze alternative sono spesso associate alla tristezza, mentre invece a destra si esalta sempre più la gioia barbara, il godimento selvaggio, senza limiti, l’idea che tutto sia possibile. E se a questo godimento opponiamo una moraluccia da monaci, dicendo che ci possiamo privare di tutto e si può vivere con sempre meno, beh… abbiamo perso in partenza.
Raccogliere la sfida del pensiero ci dà più chance nel continuare a far vivere una certa idea di mondo. Che è la ragione che ha dato vita al movimento cooperativo. Ora il problema è che la Coop , poco a poco, è diventata nella percezione di molti qualcosa di simile ad altre catene della grande distribuzione. E allora chiediamoci: perché, poco per volta, davanti alla concorrenza della distribuzione neoliberista, si è tentati, per sopravvivere, di adottare gli stessi metodi degli altri?
Qui c’è uno snodo importante su cui ragionare: cercare di capire come si possa definire oggi questa essenza cooperativa. Che cos’è, come si manifesta.
PER NON DIVENTARE INDIVIDUI-STRUZZO
Per cominciare ci si potrebbe chiedere se sia vero che la Coop si rivolge allo stesso modello di individuo al quale si rivolge qualsiasi altra catena della grande distribuzione.
All’individuo folle del neoliberismo non basta dire «sii razionale»
Le altre catene hanno in mente – quando pensano al loro cliente – un individuo isolato, senza legami, da sedurre con proposte di consumo. Ma noi, se vogliamo veramente essere un’alternativa, dobbiamo capire a quale altra entità che non sia questo tipo d’individuo possiamo rivolgerci. Fino a oggi quest’altra identità era la morale razionale. Ci rivolgevamo cioè alla razionalità dei soggetti. Per semplificare, diciamo che le altre catene distributive si rivolgono all’individuo «irrazionale»: un individuo centrato su di sé, sulla propria utilità, che non sente alcun legame né con gli altri né con l’ambiente in cui vive. Le imprese neoliberiste si rivolgono a questa entità folle, che non riconosce l’interdipendenza, ma si pensa separata da tutto. C’è oggi una mitologia dell’individuo alla quale abbiamo opposto finora una morale che dice: «Attenzione, imposta razionalmente il tuo rapporto con il mondo, con la tua classe sociale, con il consumo. Sii razionale!». Penso che dobbiamo comprendere come promuovere un modello diverso che non sia quello individualista. Modello al quale Coop, come molti, è tentata di aderire. Perché ovviamente tendiamo tutti a pensare che l’«individuo» sia una idea giusta e desiderabile e quindi finiamo per favorirla con pratiche che la legittimano, contribuendo però così a recidere i legami sociali.
Dovremmo cercare di capire se Coop resiste a tutto questo e quali sono le pratiche che può adottare per favorire lo sviluppo dei legami sociali e quali invece quelle che li distruggono. Tenendo in considerazione il fatto che più la Coop ha un comportamento volto a sedurre gli individui, a far leva sulla loro irrazionalità, più sviluppa ciò che la può distruggere. Ma allo stesso tempo non può neanche semplicemente insistere sulla razionalità perché oggi non fa più presa.
Sperimentare pratiche che ri-territoriaiizzino le vite
Per capire il modello d’individuo che caratterizza la nostra epoca, immaginiamo uno struzzo con la testa infilata nella sabbia. Lo Struzzo dice «il mondo è un buco oscuro». Analogamente ogni individuo è un sottoinsieme che percepisce solo quello che per lui è immediato e quindi è portato a pensare che il suo mondo si riduca al suo ristretto orizzonte percettivo. Verrà informato del mondo come lo struzzo, attraverso la sua televisione privata, il suo telefonino, ecc. La sua testa si affaccia su tutti quei mezzi di comunicazione che servono sì a informarlo del mondo, ma nello stesso tempo contribuiscono a tagliare i suoi legami sociali, a de-territorializzarlo.
Il concetto di territorializzazione è un concetto proposto da Gilles Deleuze, un filosofo francese. Per l’individuo neoliberista questo concetto è frutto di una scelta. L’individuo si cerca un territorio e dice «mi devo territorializzare». Ma è un’illusione perché in realtà il nostro territorio è già il nostro corpo: il nostro corpo intero, in tutte le sue determinazioni.
Spesso mi capita che le persone vengano da me in quanto psicologo e psicoterapeuta e, sapendo che sono anche un intellettuale, mi dicono che vorrebbero impegnarsi politicamente e socialmente, per esempio a favore degli immigrati clandestini o dei palestinesi. Questa è una modalità di impegno che definirei da supermarket. Al supermercato mi trovo davanti allo scaffale «impegno» e dico «ok, oggi mi impegno per i palestinesi, domani magari per i clandestini». In realtà per me impegno significa riconoscere in cosa siamo già impegnati . Conoscere cioè l’insieme delle determinazioni che ci costituiscono come persone e che ci legano agli altri.
LIBERTÀ È RICONOSCERE LE PROPRIE FILIAZIONI
Aristotele definì la figura dello schiavo come colui che può essere utilizzato per attività molto diverse tra loro. Lo schiavo può lavorare nei campi o navigare, è spostabile da una mansione a un’altra. Lo schiavo di Aristotele è l’individuo flessibile di oggi. L’uomo libero invece è quello che deve assumere un sacco di filiazioni.
La lezione di Aristotele
Aristotele, con buon senso, dice che l’uomo è tanto più libero quanto più ha legami. La nostra società ha rovesciato questo approccio e chiama libertà questa flessibilità totale nella quale un uomo deve adattarsi ai bisogni economici e quindi può essere tranquillamente deterritorializzato, delocalizzato. Si cambia il posto di lavoro, per esempio, in nome di un’idea di libertà che definisce come schiavitù il fatto di essere vincolati a un posto.
L’esempio più eclatante è quello di France Telecom. I manager di quest’azienda spingevano le persone verso la deterritorializzazione, al punto che gli impiegati non dovevano personalizzare gli uffici e persino i rapporti di amicizia con i colleghi erano visti in cattiva luce. Gli impiegati dovevano essere pronti a cambiare città, a cambiare territorio, ogni tre o sei mesi.
Il presupposto della società post moderna è che l’essere umano libero sia una quantità di energia disponibile, che può essere utilizzata secondo i bisogni del mercato. Ma il successo di questa idea è dovuto al fatto che aderisce perfettamente a una concezione della libertà secondo la quale non dobbiamo dipendere da nulla. Così oggi posso essere un professore e domani un ebanista, oggi posso vivere in Canada e domani in Francia.
Questo principio, che il neoliberismo utilizza in modo perverso, sta violentando alcune invarianti biologiche e culturali e sta producendo processi sociali morbosi. Perché l’uomo non è energia libera: l’uomo è come lo struzzo, se lo si deterritorializza troppo si finisce col tagliargli la testa. Non è dunque corretto identificare la flessibilità neoliberista, che tutti accettano, con la libertà.
«Sentire il mondo» è la condizione per impegnatisi
L’uomo del neoliberismo – separato, scisso da tutto – è l’individuo che crede che i legami sociali e ambientali siano irrilevanti per lui, la sua vita, il suo benessere. Che non riconosce vincoli e filiazioni e crede che «tutto è possibile». Per questo preferisco parlare di persona, riferendomi a un soggetto che si dà in un territorio concreto e che esiste e può svilupparsi proprio in virtù dei legami che ha e che riconosce. L’irrazionalità del neoliberismo ha a che vedere con una società di teste separate dal corpo, quel corpo che è il nostro primo territorio.
Impostata in questi termini, si capisce forse meglio la questione – quanto mai attuale – della rottura dei legami nella nostra società. È un fenomeno che a me piace esprimere (facendo riferimento alla Grecia antica) nei termini di un passaggio da un mondo «tragico» a un mondo «grave». Una dimensione tragica dell’esistenza è qualcosa che ci cattura, che ci trascina con sé. La dimensione di gravità invece riguarda qualcosa che percepiamo distante.
La guerra del Vietnam è stata una guerra tragica, perché toccava immediatamente tutti gli abitanti del pianeta. Si era consapevoli che l’esito di quella guerra avrebbe cambiato la vita di tutti. Questa è la dimensione tragica di un fenomeno: una dimensione caratterizzata da legami, da nessi profondi, ontologici, che ci catturano e in cui ne va di noi. Un altro esempio è stata la Shoah, nella Seconda Guerra Mondiale, che rappresenta (nell’immaginario occidentale e non solo) una rottura storica, con un prima e un dopo. Tant’è che ci si è chiesti se dopo Auschwitz fossero ancora possibili la poesia e la fede.
Se passiamo all’epoca postmoderna, vediamo che cambia l’esperienza del mondo. Prendiamo la guerra nella ex-Jugoslavia. Anche lì si è materializzata la pulizia etnica e non sono mancati i massacri. Eppure pochi di noi sono in grado di dire chi ha ucciso chi e per che cosa. Grosso modo si sa che nei Balcani c’è stato un conflitto tremendo. Certo, si considerava la cosa gravissima, ma non un evento che ci riguardasse direttamente, a meno di non essere serbi, bosniaci o croati.
Nella differenza di percezione tra queste due guerre credo si colga bene la differenza tra il grave e il tragico.
Oggi tutto è grave, nulla è tragico
Noi siamo persone interessate ai legami. A come si sviluppano e si formano i legami. E nel passaggio dal tragico al grave, evidentemente, c’è qualcosa che ci interessa. Oggi viviamo in un mondo in cui ci sono eventi gravi, guerre gravi, disastri ecologici gravi, ma nulla di veramente tragico. E questo è un elemento di debolezza. Gli ecologisti cercano di dimostrare continuamente alla gente che la situazione del pianeta è grave. Ma più mostrano che le cose sono gravi, più le persone se ne allontanano. Dimostrare razionalmente la gravità di un problema ha l’effetto paradossale di allontanare le persone dal problema stesso. Questo è un problema quasi quotidiano per chi cerca continuamente di far prendere coscienza alle persone della gravità della situazione, senza rendersi conto che il solo modo per motivare la gente a intervenire è che si senta coinvolta, che non pensi razionalmente alla gravità, ma che possa sentire il legame tragico con la realtà. Continuare a dire a questo individuo deterritorializzato che quello che accade è grave non funziona. Anche perché siamo con la testa (torna l’immagine dello struzzo) bombardata da informazioni, e questo agevola i nostri processi di rimozione.
COSA HA INSEGNATO IL TERREMOTO IN ABRUZZO
L’individuo occidentale è come lo struzzo di cui dicevo prima: la sua mente è separata dal corpo, da ciò che ci costituisce, che ci radica in un luogo. Questa separazione (che costituisce in fondo la promessa di libertà della modernità) ha prodotto anche saperi e conoscenze che hanno cambiato il mondo e l’esperienza che ne facciamo. E’ diventata cioè un dispositivo logico, come testimonia l’informatica.
Il rischio di affidarsi a informazioni codificate
L’informatica ha cambiato il mondo non solo per l’introduzione dei computer nella nostra vita, ma perché è diventata modello di ricerca universale. La scoperta del DNA, negli anni ’50, è stata resa possibile grazie all’applicazione di un approccio informatico. Da allora si è cominciato a costruire una biologia che corrisponde a questo modello, nel quale il concetto di «informazione codificata» è centrale. Ma la vita territorializzata è attraversata anche da quella che chiamo «informazione non codificata», che viene dal corpo, dal territorio.
C’è un passaggio, nel docu-film di Sabina Guzzanti Draquila (che parla del terremoto in Abruzzo), che spiega bene la differenza tra informazione codificata e informazione non codificata. E’ un passaggio interessante perché permette di vedere come, affidandosi all’informazione codificata, l’uomo rischi di annegare nella sua impotenza.
Il direttore del quotidiano locale racconta che, qualche giorno prima della scossa devastante, i suoi figli gli dissero che ci sarebbe stato un terremoto. Il loro corpo glielo segnalava. Ma siccome il giornale riceveva le informazioni dai sismografi, uscì la notizia che il terremoto non sarebbe stato forte. Ancora la notte prima, quel padre racconta che i suoi figli si erano messi a piangere percependo il pericolo. E guardando l’obiettivo, a quel punto confida: «Li ho rassicurati che non c’era nessun pericolo. E invece quella notte sono morti».
Nel pianto di un padre il condensato della deterritorializzazione
Ho trovato questo episodio terribile. Perché veramente è un condensato della deterritorializzazione che ci avvolge. Quei bambini avevano una conoscenza di ciò che sarebbe accaduto, erano in possesso di un’informazione non codificata. Ma l’individuo del neoliberismo e della postmodernità non riconosce più tutto ciò che viene dal territorio e che non è codificato. L’uomo struzzo, separato dal suo corpo, non ha più accesso a questo tipo di informazioni.
Questo meccanismo di separazione del “corpo dal mondo reale, della mente dal corpo, non solo rende possibile l’oppressione, ma mette anche in pericolo la vita stessa. Si tratta dunque di un punto molto importante che riguarda la nostra capacità di comprendere la realtà e addirittura la possibilità di sopravvivenza della nostra specie.
Qual è allora il modello, o quali possono essere i modelli che possiamo utilizzare per capire un po’ meglio la nostra epoca, difendere la vita e sviluppare processi di emancipazione e solidarietà? Oggi siamo in presenza di un accumulo di informazioni, ma siamo anche di fronte a una contestuale perdita di saperi che ci rende impotenti.
FAR EMERGERE IL DESIDERIO DI ALTRE COSE
In sintesi, ciò che l’individuo oggi vive è secondario rispetto al racconto nel quale vive. L’uomo-struzzo con la testa nella buca, costituito dalle tante narrazioni che gli fanno dimenticare il corpo e tutto ciò che proviene da esso (i messaggi, il dolore, il piacere, ecc.), viene immediatamente fagocitato da questa massa di narrazioni, che nella nostra epoca sono ciò che si oppone al reale.
Oltre la narrazione del consumo spensierato e irresponsabile
Partendo da questi presupposti, possiamo ora parlare del consumo. Per il mercato postmoderno la cosa importante è creare una narrazione per cui le persone comprino e consumino in un modo disconnesso da qualsiasi organicità. Ancora peggio: si consumano cose che distruggono la vita.
La postmodernità neoliberista capisce che bisogna creare una narrazione che giustifichi le pratiche separando questo racconto da qualsiasi livello di verità organica. E questa costruzione del racconto diventa il focus, il centro, il modello di riferimento. L’uomo attuale, l’uomo dell’individualismo postmoderno, vuole, come obiettivo concreto della sua vita, ciò che è utile, ciò che produce felicità immediata e spesso artificiale.
Ora la felicità, come sappiamo, è una costruzione antropologica e storica che cambia col passare del tempo. Per l’esattezza ci sono due cose che cambiano nella «felicità» ciò che la produce e ciò che si sente nel proprio corpo e ci fa dire «sono felice». È difficile trovare esperienze che in ogni cultura e per qualunque persona siano associate in maniera univoca a felicità o infelicità.
La storia e la cultura plasmano i corpi e le menti e fanno sì che, a seconda dei periodi storici, si sia contenti per alcune cose e infelici per altre. La nostra cultura divenuta poco a poco una cultura di pura esteriorità, ha prodotto un uomo che crede solo a questi elementi, a queste certezze: utilità e felicità immediata.
Sta a noi adesso cercare di capire come si possa agire per ampliare la superficie di ciò che la postmodernità ha ridotto all’esistenza di questi semplici elementi. Capire cioè quali possono essere le possibilità e le condizioni per fare in modo che a livello sociale e culturale emergano altre cose desiderabili oltre a quelle che la società definisce come utilità e felicità.
Per narrazioni dove protagonisti siano i legami
Credo che la Coop sia un ambiente ideale per questo genere di ricerche e di riflessioni. Infatti vendere merci, prodotti, farli circolare, è una cosa che riguarda anche il modello di felicità e di comunicazione implicito nelle narrazioni dominanti nella società. Coop è proprio al centro di questo snodo. E qui ci sono due opzioni: o seguiamo il percorso che ci invita a costruire delle storie, delle narrazioni finalizzate a far sì che le persone comprino più alla Coop che in altre catene distributive, oppure seguiamo un’altra modalità che riguarda invece la ricostruzione dei legami, per far sì che non ci siano solo storie e racconti manipolatori.
Sta anche qui la sfida della Coop: nel non rimanere solo a un livello di comunicazione utilitaristica, dove si «vende» la felicità.
Al contrario la sfida è riterritorializzare il mercato e la circolazione dei prodotti in modo qualitativamente diverso da ciò che succede in qualsiasi altra catena della grande distribuzione, e non solo perché Coop è di sinistra o cose del genere.
La mia convinzione è che, proprio ricostruendo i legami tra le persone, tra le persone e l’ambiente nel quale vivono, si possa oggi uscire dall’impotenza. Perché finché l’uomo della postmodernità – come ho cercato di argomentare – si vivrà soggettivamente come una massa di energia libera che può prendere qualsiasi forma perché non ha nessuna forma; finché il suo vissuto sarà il vissuto di un’entità completamente deterritorializzata, la conseguenza sarà lo scivolamento in una dimensione di impotenza totale perché finiremo per immaginarci svincolati da tutti i territori e da tutte le dimensioni che ci costituiscono.
SEMINARE IL MONDO DI DOMANI
Non si diventa più liberi uscendo dalla complessità dell’esistenza, collocandoci in uno spazio etereo, in un presente a-temporale.
Per noi l’esperienza rimane infatti legata a un corpo che occupa un posto nello spazio e nel tempo. Un corpo per il quale non tutto è possibile e che è segnato dai limiti. Un corpo e dei corpi per i quali ciò che non è possibile è la base di tutti i possibili. Ciò che limita le mie possibilità non è infatti una cosa che mi impedisce l’azione, ma è qualcosa a partire dalla quale produco il possibile.
Quello che dobbiamo cercare di capire oggi è come possiamo difendere la vita e produrre nuova libertà, nuova emancipazione e solidarietà. Io credo che questo si possa fare ri-territorializzando le pratiche, incorporando anche il mondo digitale dentro territori concreti. In questo contesto anche il mondo cooperativo è chiamato a dare il suo contributo, a partire da una riflessione sulla sua storia e su ciò che ne ha permesso lo sviluppo.
Non si tratta di continuare a chiedersi se il movimento cooperativo sia o meno qualcosa di diverso o antagonista al capitalismo. Si tratta di rendersi conto che le ragioni per cui il movimento cooperativo sopravvive alla crisi non sono economiche, ma antropologiche. Il problema quindi non è se la cooperativa sia un’azienda o no. Se Coop sopravvive è proprio perché non è soltanto un’azienda.
Penso allora che, per capire meglio ciò che fa resistere il movimento cooperativo, non convenga rifarsi ai criteri del modello d’impresa, ma a modelli antropologici molto più complessi che spieghino il fatto che questo movimento riesce a sopravvivere. Le ragioni per le quali la Coop sopravvive sono ragioni antropologiche.
Un po’ come accade nella ricerca biologica: se c’è un’epidemia, molti muoiono, ma c’è sempre qualcuno che sopravvive. Si cercano allora le ragioni per cui il suo corpo ha resistito a questo batterio. E in questo modo che si trova un vaccino. Non si cerca un vaccino a partire dal nulla. Per trovare la cura si deve poter contare su una popolazione sopravvissuta. Il movimento cooperativo rappresenta oggi la popolazione sopravvissuta.
I motivi per cui sopravvive non coincidono con le ragioni economiche per cui gli altri muoiono. Allora si tratta di riconoscere e anche teorizzare queste ragioni. Per dare ad esse forza. Per non considerarle un inutile arcaismo, ma i semi del mondo di domani.
Miguel Benasayag, psichiatra e psicoanalista, vive e lavora a Parigi.