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I Social NON Sono Piattaforme di Distribuzione

Creato il 22 febbraio 2016 da Pedroelrey

WAN-IFRA ha pubblicato “Digital priorities for publishers – a global snapshot”, interessantissima panoramica in cui esperti di tutto il mondo dicono la loro sulle sfide del digitale per gli editori.

Si va dalle opinioni di Yumiko Ono, Asia Digital Editor del The Wall Street Journal a Julia Beizer, Director of Product di The Washington Post. Ciascuno degli intervistati identifica tre punti, tre priorità, da affrontare per vincere, o almeno provare a farlo, la sfida del digitale.

Tra gli intervistati compare anche Massimo Russo, recentemente nominato condirettore de La Stampa, che si fa interprete di una visione tutta italiana del rapporto tra newsbrand e social. Al punto uno del suo intervento Russo infatti afferma che “Newspapers have to find better ways to distribute their journalism outside their sites – on search engines, social networks, proprietary operative systems and devices and on video OTTs, preserving branding and monetisation while growing their traffic. At the same time, they have to avoid being cut off from the relationship with their user base”.

Si tratta di una tema, di una prospettiva, che nessuno degli altri interventi propone a conferma di come l’idea che i social siano piattaforme di distribuzione sia tutta italiana. Ipotesi di lavoro che, in buona sostanza, vedrebbe in social media e social network semplicemente dei canali attraverso i quali diffondere i contenuti della propria testata, insomma, come viene detto, una modalità per aumentare il traffico al proprio sito e monetizzare. Non me ne voglia Massimo Russo, giornalista di riconosciuta competenza e professionalità, ma non sono assolutamente d’accordo su tale ipotesi di lavoro.

Ritengo ci sia un problema di base all’interno dei giornali italiani con i giornalisti spesso chiamati ad assolvere a compiti sui quali oggettivamente difficilmente hanno congrue competenze. Penso al giornalista messo, a mezzo servizio mentre continua anche ad occuparsi di altro, ad occuparsi della gestione dei social della testata solo perché è quello che ha più follower su Twitter, o peggio perché il solo disponibile a farlo, e più in generale ad interessarsi a tematiche quali il branding e dunque, in buona sostanza, il marketing del newsbrand per cui lavora senza ipso facto averne le competenze. Un po’ come se il sottoscritto, al contrario, fosse messo alla direzione di un giornale, cosa che, non ho dubbi, giustamente, solleverebbe più di qualche perplessità.

A questo problema di fondo tutto italiano, che potremmo sintetizzare con il vecchio detto milanese offelee, fa el tò mestee [pasticciere, fa’ il tuo mestiere], esortativo per invitare a non occuparsi di attività delle quali non si è esperti, si aggiunge il fatto che, ad oggi, la quasi totalità delle testate non ha di fatto compreso a cosa servano potenzialmente i social. Non sarà casuale, credo davvero, se il Washington Post ha ripreso linfa e vitalità, arrivando recentemente a sorpassare l’audience online del NYTimes, sotto la guida di Jeff Bezos che porta il know how di Amazon con conoscenze e competenze che senza ombra di dubbio esulano da quelle giornalistiche.

I social hanno un peso per l’industria dell’informazione, ovviamente per alcuni siti ben più che per altri. Non solo è ampiamente confermata “l’insostenibile leggerezza dei referrals” ma anche che il tasso di conversione, le persone che dopo aver visto una notizia sui social cliccano per leggere l’articolo è assolutamente una minoranza.

Basti vedere, in assenza di altri dati o di utilizzo di piattaforme specifiche di monitoraggio, il rapporto tra numero di fan, pur con tutte le tarature sulla reach effettiva, e gli accessi complessivi al sito web corrispondente della testata o, peggio, la vendita di copie cartacee, per verificare quanto labile sia la relazione.

Le persone, nella migliore delle ipotesi, leggono le due righe del post caricato su Facebook e, se tutto va bene, mettono il loro “mi piace”, condividono o commentano. Pur escludendo i troll, per buona parte casi sono commenti critici verso la testata ed i suoi contenuti poiché evidentemente queste persone non hanno in realtà una reale passione, adesione ed interesse per la testata.

A questo si aggiunga che, in particolare su temi controversi, i post – che NON sono moderati, eh! – diventano davvero una discarica di scurrilità ed insulti di ogni genere. Ed ancora, si consideri che per ottenere like e condivisioni spesso si snatura il posizionamento originario della testata caricando sulla pagina Facebook gattini o peggio.

Le persone, anche nel nostro Paese, passano una grande quantità del loro tempo online sui social ed in particolare su Facebook. Noi, i giornali, andiamo lì come una volta – è una metafora che uso spesso – andavamo al bar a incontrarli, a conoscerli. I social sono piattaforme di distribuzione del contenuto ma, soprattutto, luoghi di relazione con le persone. Dobbiamo capire bene chi sono, quali sono i loro interessi, le loro preferenze, per poi – continuando nella metafora – andare via dal bar per bere qualcosa insieme a casa nostra. Facebook è un bar, una piazza di paese dove incontrare persone, comprenderne interessi, motivazioni, aspirazioni e, soprattutto, dati, da interpretare correttamente per tradurli e renderli disponibili a casa propria, nel proprio sito, nei prodotti e nei servizi forniti.

Una “casa” dove vi saranno comunità d’interesse, anche di nicchia, aree di partecipazione e discussione sui temi di rilevanza per il lettore, per le persone.

È solo in questo modo che siamo in grado di valorizzare la relazione. Di creare valore aggiunto – anche economico – per le persone, i giornali e il giornalismo. È, anche per questo, che dopo l’annuncio del lancio di Instant Articles da parte di Facebook ho caldamente sconsigliato di aderirvi, come invece ha fatto il quotidiano di cui Russo è condirettore.

I social NON sono piattaforme di distribuzione. Mettetevelo, mettiamocelo, bene in testa.

NiusRoom-07

Articolo originariamente scritto per Wolf


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