I SOLITI IDIOTI (Italia 2011)
Temo di dover dare ragione alla De Gregorio e dover riconoscere che un film in cui l’impresa dell’eroe consiste nel portarsi a letto una top model bellissima non rappresenta un esempio di valori per gli adolescenti. I soliti idioti, in poche parole, racconta di questo. Ma “racconta” è un verbo enorme: la trama è meno che abbozzata, e se di solito, da un film tratto da sketch televisivi, ci si aspetta proprio questo, ovvero una trama abbozzata, qui si è toccato il punto più basso. Aveva ragione anche Aldo Grasso, e io mi ritrovo abbastanza nella sua posizione.
All’inizio, su Mtv, questi sketch non mi piacevano, non mi facevano ridere. Poi, col tempo, andando avanti, ho cominciato ad apprezzarne i punti forti, che stavano in un’irriverenza senza freni e in una volgarità portata all’eccesso, non compiaciuta e neanche ipocritamente mascherata: i paragoni con I mostri calzavano alla perfezione. Ne ho poi apprezzato il trucco, davvero notevole, la regia, le trovate originali degli sketch e, come sempre avviene, ho iniziato a preferirne alcuni rispetto ad altri, più deboli. Nel giro di pochi mesi li adoravo, e le novità della stagione nuova non deludevano.
Ma era televisione.
La comicità che portavano era adatta soltanto alla tv (potrei dire che “il medium è il messaggio”, ma McLuhan potrebbe incazzarsi anche da morto), erano sketch veloci che, nella migliore tradizione inaugurata dal Drive In, non ti davano il tempo di pensare a quanto fossero scemi. Ridevi, e appena iniziavi a pensare che, in fondo, stavi ridendo di poca cosa, lo sketch era già quello successivo.
Era la tv, però, e in un film questo meccanismo non funziona.
Io credo che Tre uomini e una gamba sia stato in qualche modo deleterio per aver fatto credere ai comici e/o ai produttori che fosse facile mettere insieme con un esile filo narrativo un film composto interamente di sketch. Ma facile non è, e l’esordio di Aldo, Giovanni e Giacomo rappresentò, credo, una felice eccezione. Perché? Non saprei dirlo con certezza, ma è molto probabile che ciò sia dovuto a diversi fattori: Aldo, Giovanni e Giacomo erano dei comici che, innanzitutto, proponevano gli stessi sketch da una quindicina d’anni. Erano rodati, avevano già lavorato in Rai e alla corte della Gialappa’s. Gli attori di contorno, poi, erano ottimi, i ruoli erano ben distribuiti e le spalle funzionavano. Il film, infine, si inseriva in un genere cinematografico ben definito, il road movie, e con fedeltà ne seguiva gli stereotipi, senza citare ammiccando nessun altro film direttamente e proponendo anzi un proprio discorso personale. Forse non originale ma coerente.
Ciò detto, venendo a I soliti idioti (anch’esso, nelle intenzioni, un road movie all’italiana): manca una sceneggiatura; c’è sì un filo narrativo, ma manca proprio una scrittura, un dosaggio di momenti e un pensiero a come legare tra loro i vari “idioti” (la coppia gay e quella moralista piombano dal cielo così, senza motivo, senza legami con la storia di Ruggero e del figlio); manca una gestione dei tempi e le storie secondarie si perdono per strada con troppa facilità (basti pensare che in molti punti il film è noioso, fatto deprecabile per una pellicola comica); la scena clou scopiazza un celebre spogliarello e si ispira troppo apertamente alle docce di Edwige Fenech nei film di Lino Banfi e Alvaro Vitali (ma senza consapevolezza, perché non cita né stigmatizza quel filone); il romano sboccato si è visto troppe volte; i momenti musicali sono noiosi e ripetitivi (gli autori dei testi delle canzoncine non si sono sforzati più di tanto. Piacciono in tv, danno quel tocco di originalità, ma al cinema si scontrano con quella cosetta chiamata musical); manca un contorno di attori veri (non ci sono caratteristi né spalle, e in questo modo gli “idioti” non fanno il salto, rimangono televisivi su uno schermo più grande. Sì, c’è Gian Marco Tognazzi, ma si vede poco e di sfuggita, è irrilevante); non c’è vera cattiveria (in tv la cattiveria è evidente nelle loro maschere e comportamenti, ma gli stessi elementi, allungati per i tempi cinematografici, diluiscono l’effetto); la scelta dei personaggi è sbagliata (passi fare della coppia Ruggero-figlio i protagonisti, ma i due gay e la coppia di tennisti non fanno ridere neanche in tv, e portarli sullo schermo è stato un grave errore; meglio sarebbero stati, ad esempio, il mafioso o i due bambini maleducati. Apprezzabile invece l’intermezzo “postina”, che fa molto film muto).
Mancherebbe poi una lunga lista di altre cose, ma ho deciso di dare più spazio al “però”.
Perché c’è un però da non dimenticare.
Il film è brutto e non lo consiglierei, però… davanti ai nostri occhi, sullo schermo, c’è per un’ora e mezza un vecchietto infoiato e sotto sotto sfigato che è deluso dal figlio perché non lo imita nella sua voglia di sesso; davanti ai nostri occhi ci sono le forme giunoniche di una modella oggetto costante di desiderio erotico; sentiamo battute a base di “cazzo” e “culo” ed esternazioni populiste sull’Italia, riferimenti fallici e sessuali da osteria; vorremmo che fosse qualcosa di diverso da un cinepanettone ma, andando avanti, ci si accorge che la differenza non è poi così decisiva. E nel frattempo, fuori dal cinema, in tv o sui siti internet, scorrono le immagini della caduta dell’uomo che ha reso più o meno tutto ciò una realtà tangibile, portandola nei contesti della politica e delle decisioni importanti. Non possiamo non pensare alle corna, alla maleducazione, alle battutacce, alle senilità, alle storie di ciò che fa in alcuni palazzi con un determinato tipo di donne. Pensiamo a quante volte ci siamo trovati davanti tutto questo, a quante volte abbiamo alzato gli occhi al cielo sperando che finisse. I soliti idioti, ripeto, è un brutto film e non lo consiglierei, però pensiamo a tutto questo, confrontiamolo con quello che appare sullo schermo e cerchiamo di realizzare il fatto che sta finendo tutto, che la pagina, forse, stavolta girerà davvero. Il film, allora, diventa una sorta di canto del cigno al contrario, la rappresentazione del fondo che si è toccato, la parte più scura del tunnel.
Marcello Ferrara