Per una volta, tutto quello che di entusiasmante avete letto di un film è assolutamente vero. Stiamo parlando de I soliti ignoti, pellicola del 1958 diretta dal mai troppo compianto Mario Monicelli che, con il suo enorme successo di pubblico e critica, sancì la nascita del genere internazionalmente più rappresentativo del nostro cinema: la "commedia all'italiana". Le caratteristiche che ci fecero incoronare di allori sulla scena mondiale per due decadi (al netto dei tanti effimeri revival, strombazzati a ogni ambo azzeccato di successi al botteghino) si trovano difatti già compiute e realizzate in maniera superba proprio in questo capolavoro di Monicelli.
Innanzitutto, l'ambientazione storica gioca un ruolo primario nella delineazione del profilmico. La vicenda de I soliti ignoti si situa infatti nell'onda lunghissima del disastrato dopoguerra italico, quel quindicennio pre-boom dove la vita era appesa a un asfissiante senso di ricostruzione perenne, almeno per le enormi masse del sottoproletariato. La Roma del film non è quella del centro storico da girare vezzosamente in Vespa ma un mondo dove pullulano casermoni, periferie e cantieri aperti. Il palazzo dove la scalcagnata banda di ladruncoli tenterà il colpo gobbo si erge su una Via della Cordonata spoglia delle masse di turisti che percorrono quella che adesso è una cerniera importante tra Piazza Venezia e il Quirinale. E chi conosce la toponomastica capitolina sorriderà al pensiero che perfino la baracca di Capannelle era situata nella nevralgica stazione Tuscolana.
A questi set da neorealismo pasoliniano fotografati fulgidamente da Gianni Di Venanzo si accompagna una partecipe scrittura verso personaggi sentiti più come vittime della temperie culturale dell'epoca che come negativi rappresentanti. Senza scadere in certi eccessi patetici rosselliniani la messa in scena della quotidianità di una fetta di emarginati (sia dal punto di vista culturale che legalitario ai protagonisti non rimane che provare la strada della delinquenza perché è l'unica possibile) riesce comunque a lambire esiti veristici di raffinato vigore proprio in virtù dell'assenza dell'istanza ideologica di denuncia sociale. Insomma, I soliti ignoti è un film che fa ridere dove ci sarebbe da piangere e che perciò dona al riso quel tipico carattere catartico che gli è consono sin dalle commedie greche e latine. D'altro canto la squadra di sceneggiatori al lavoro sul film rappresenta l'olimpo del nostro cinema: lo stesso Monicelli, Age & Scarpelli, Suso Cecchi d'Amico.
Affrontata la questione autoriale possiamo concentrarci su quella attoriale. Inutile negare che a contribuire alla mitizzazione di certe pellicole spesso giochi un ruolo preponderante la presenza di un cast altamente figurativo. Anche in questo aspetto I soliti ignoti ha tracciato l'alveo percorso dal fiume di lungometraggi successivi. Nemmeno il più calibrato dei bilancini produttivi avrebbe potuto ottenere un tal equilibrio: nel film di Monicelli abbiamo contemporaneamente i due pesi massimi del nostro cinema tout court: Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni; una guest star d'eccezione: un Totò istrionico nonostante la limitazione di una presenza non significativa; due caratteristi che confermano la nostra grande tradizione di belle facce: Tiberio Murgia (e cosa significhi per un sardo interpretare per tutta la carriera il tipo del siciliano all'antica lo spiega egli stesso splendidamente alla trasmissione Stracult di Marco Giusti) e Carlo Pisacane, il Capannelle senza il cui input l'idea del colpo non partirebbe; una presenza femminile di procace bellezza: la futura diva Claudia Cardinale e la graziosa Carla Gravina. Un film comico non sarebbe però pienamente riuscito se non raccogliesse al suo interno almeno un paio di battute incasellabili nella memoria collettiva e anche in questo caso I soliti ignoti non solo rientra nella categoria ma diventa fenomeno di costume e di linguaggio.
E grazie alla teatralità di queste maschere e di queste gag, avvertite dal pubblico così vicine e così liberatorie, al film di Monicelli viene dato un seguito fulmineo. Audace colpo dei soliti ignoti uscì nel 1959, ad appena un anno di distanza dal suo predecessore. A dirigere la nuova impresa criminale della banda di Peppe er Pantera venne stavolta chiamato Nanni Loy che diede alla pellicola un tono più scanzonato e meno malinconico; il che se vogliamo, equivale nella messa in scena filmica alla presenza di Nino Manfredi al posto di Marcello Mastroianni. Il coinvolgimento del nuovo personaggio di Piede amaro, il meccanico alle prese con una moglie arpia e con suocera a carico, fornisce infatti prevalenti spunti di interazione ilare con caratteri già conosciuti e dai quali il pubblico suole già aspettarsi la reiterazione di certi tormentoni, come il tartagliamento di "sc-sc-scientifico" da parte di Peppe o l'asfissiante gelosia di Ferribotte nei confronti della sorella.
La sceneggiatura di Age & Scarpelli, rimasti soli a scrivere lo script, ha il merito di non insistere solo su piatti stilemi e quando lo fa propone un'intelligente variazione sul tema. È il caso, tra i tanti, della briosa Floriana, interpretata con sensualità da Vicky Ludovisi (e filmata con sconcertante pruriginosità, dato il periodo storico, da Loy), che riempie il film di una femminilità opposta rispetto a quella sfuggente della Gravina nel primo episodio o quella inafferrabile della Cardinale.
La storia de Audace colpo dei soliti ignoti fa la spola tra la Milano industriale e precisina (non a caso la rapina sarà coadiuvata da un grigio ragioniere del Totocalcio) e la Roma pigrona dell'immaginario. Espunta qualche inevitabile e facile battuta sulla sudditanza meridionale nei confronti dei settentrionali, il regista Nanni Loy compie un'operazione interessante: estende l'aura del fallimento a tutta la Penisola, connaturandola di un certo compiaciuto senso di sconfitta. Si veda il sorprendente finale, che da augusto diventa in men che non si dica angusto: questi poveracci non sono abituati né a rubare né a gestire la tensione della vittoria.
Come dice il personaggio interpretato da Mastroianni nel primo episodio, il crimine non è una cosa per loro. Rubare è una cosa seria. Ed anche saper spendere i quattrini lo è. Capannelle ha approfittato del primo gruzzoletto intascato per una pantagruelica cena e si è fatto venire "un infarto alla panza" (quanto sa essere splendidamente incisivo, il popolino!). I quattro ladruncoli decidono allora, in un sol colpo, di liberarsi sia della valigia col malloppo che della necessità di dover ingegnarsi a vivere da nababbi. Più congruo allo spirito italico è beccarsi una multa alle due di notte e baccagliare con vigili e amici ("M'hanno rimasto solo, quei quattro cornuti") nell'eterna speranza di un cambiamento. Agognato ma rifiutato, come sempre. Perché noi italiani oscilliamo sempre scherzando e maledicendo sul dirupo della rovina senza volerci allontanare da esso.