Ne discutevo ieri con Silvia: Dario Argento è uno dei pochi che può guardare al suo passato e bearsi di aver realizzato qualcosa di duraturo.
Suspiria.
Che, alla luce del tetro presente resta come una gemma scarlatta in una grotta buia: quell’autismo creativo in cui è sfociato il suo artefice.
Eppure, mi rifiuto di considerare l’attuale Argento (e per questo pregherei, in eventuale sede di commento, di sorvolare e di soffermarsi esclusivamente sul tema del presente articolo) e di seguito Suspiria come un film realizzato “a botta di culo”.
Perché, per quanto la fortuna possa aver influito sulla resa ultima, Suspiria è esperienza visiva, sonora, e parla il linguaggio universale del ritmo. Oltre che della favola.
È una fiaba nera, quindi fondante la propria essenza su temi universali: l’Innocenza (ricordiamo che la protagonista, insieme alle sue colleghe d’accademia, doveva essere una dodicenne, poi elevata a ventenne causa leggi tedesche restrittive in fatto di attrici minorenni) contro il Male, incarnato nella figura di una strega.
Lotta contro il male, quindi. Quello puro, quello sadico delle risate distorte, quello delle streghe prima che certa filosofia newage le facesse diventare sexy e appetibili.
A questa lotta eterna contro chi, esercitando il controllo sulla realtà tramite l’impiego di antichi rituali, vuole il male degli altri per tornaconto personale, Argento asservisce i colori e i suoni.
E, sorpresa, realizza questi due elementi separatamente. Come una sorpresa, per le trovate e le invenzioni della fotografia è, in effetti, l’intero film.
Dapprima il colore, l’utilizzo delle luci in chiave emotiva, dove al rosso dominante, rafforzato anche dalla scelta di rendere il sangue un po’ meno sangue, più simile a smalto rosso acceso, in effetti (e che sia scelta e non casualità me lo conferma la scena in cui Suzy versa nel lavabo della sua stanza il bicchiere di vino; vino che si attacca alla porcellana del lavandino come vernice, simile per tonalità a quella delle pareti della Tam Academy), si alterna il blu delle sequenze notturne, la pioggia torrenziale e il verde, quest’ultimo accompagna Suzy nella confusione causatale dal vino drogato somministratole ogni sera, per mantererla quieta e inconsapevole della natura della scuola. O della sua artefice e fondatrice: Helena Markos, la strega. Che, da parte sua, predilige il nero e l’oro: il primo sulle pareti della cripta, il secondo che impreziosisce le scritture liturgiche e i rami d’alloro.
L’alloro che, secondo antico simbolismo, è preparatorio al divino. È sacro. È l’inizio del rito. In questo caso, la fine di tutto.
Poi il sonoro. Mentre sul set veniva curata la mimica e fissate le accese sfumature cromatiche su pellicola, non esistevano microfoni.
L’audio sarebbe stato registrato a parte, aggiunto come l’ennesimo ingrediente al calderone. E in ultima istanza, la musica dei goblin, composta per lo più di sospiri e lamenti che rievocano dolore e antiche liturgie pagane.
Lo scopo dell’agire della strega, posto che il fine ultimo di essa e di tutte le sue simili è “operare il male” è oscuro. Il significato della fondazione dell’Accademia di Danza, pienamente funzionante, che ospita allieve delle quali la vetusta creatura si “ciba” (psichicamente, credo, lasciandole intatte eccetto coloro che vengono a conoscenza del segreto e che devono quindi essere eliminate) non è chiaro. Ne necessario alla storia, capire il perché lo scenario sia così strutturato. È, per l’appunto, una favola. E nella favola il Male non necessita giustificazioni di sorta: è entita astratta, talora incarnata, che è tale in quanto esiste.
Una volta scoperto, impossibile, come al contrario vuole tanto il modernismo, venire a patti con esso, farsi sedurre. Resta, ineluttabile, lo scontro ultimo.
Favola, Suspiria, anche per ciò che concerne l’introduzione e lo sviluppo del personaggi. Di tutti i personaggi, da Suzy al cieco suonatore di pianoforte, al cane di quest’ultimo: ebbene, non uno di loro è approfondito, sono forme, silhouette di archetipi. Quasi prive di contenuto, con alcuni di essi (i personaggi), come le studentesse di danza, che appaiono adulte ma vogliono essere (complice la voluta altezza delle maniglie delle porte, sproporzionata, che giunge alla fronte delle suddette) bambine, in uno scimmiottamento di quell’età dell’innocenza che, agli inconsapevoli, appare ridicolo.
Non ci interessa ripercorrere il passato di Suzy e le ragioni che l’hanno condotta in Germania. Gli esperti di occultimo che lei consulta sono soltanto fonti di preziose e suggestive informazioni che chiariscono ciò che è già palese, la natura maligna dell’evento.
Persino la strega non ha un passato, ma solo quei pochi minuti a lei dedicati, quando si tratta di scatenare il suo potere oscuro e di animare un cadavere. Sequenza resa ancora più distaccata dalla realtà in quanto apparentemente ispirata da un sogno di Daria Nicolodi, nella quale l’attrice si misurava con una strega invisibile in una stanza dall’arredamento strano, in cui una pantera di porcellana esplodeva.
Il discorso fattibile è interrogarsi sulla reale volontà di Argento, se abbia voluto o meno raccontare una fiaba oscura, mostrarcela ricca di suggestioni e tecnicismi di cui all’epoca era capace, o se le mancanze strutturali nella portanza narrativa dei suoi film, che pure sussistono da sempre, siano state del tutto annichilite per puro caso, e sempre per caso l’omogeneo spettacolo di sensi elementari, vista e udito, pur così dannatamente efficace, sia tutto ciò che è restato di quei quattro mesi dedicati alla riprese di Suspiria.
E comunque, eventualmente sottratta la volontà creatrice (cosa che non posso escludere, sempre considerato il tragico presente), Suspiria è un dipinto. Quasi un’opera d’arredamento, i cui fermi immagine, le gif reperibili online, vivono di natura propria, producendo pura estetica.
(playlist ♪)