La parola “tabù” in uso nel vocabolario italiano viene dal polinesiano “tapu” o “kapu”, ed è entrata nel lessico occidentale dopo l’arrivo del Capitano Cook a Kealakekua Bay nelle isole Hawaii il 17 Gennaio 1779.
Il concetto tradizionale, il ‘tapu’ nelle isole del Pacifico, dalle Tonga alle Fiji, da Samoa alla Nuova Zelanda si riferisce a qualcosa di sacro o santo attorno al quale ci sono restrizioni, proibizioni o divieti, che sono introiettati nei comportamenti sociali.
Spiega Mircea Eliade che “Il cosiddetto tabù – parola polinesiana adottata dagli etnografi – è precisamente la condizione delle persone, degli oggetti e delle azioni isolate e vietate per il pericolo rappresentato dal loro contatto. In generale, sono o diventano tabù tutti gli oggetti, azioni o persone che recano, in virtù del modo di essere loro proprio, o acquistano, per rottura di livello ontologico, una forza di natura più o meno incerta”.
Così luoghi o cose ‘tapu’ non vanno avvicinate, toccate o consumate. Come il corpo di un capo, di un re o di un principe che non può essere toccato, oppure un certo cibo, che non può essere consumato, oppure certi comportamenti, che sono vietati dalle regole sociali che gestitiscono una comunità.
In altri casi ancora il ‘tapu’ è qualcosa di cui non si può nemmeno parlare. Come se la parola violasse una forza particolare di cui è portatore l’argomento tapu.
Nella cultura italiana, “L’Innominato“ manzoniano è un personaggio che trae il suo potere dalla paura stessa che comporta il solo fatto di doverne parlare. E nella società italiana, è il periodo storico relativo al fascismo che sembra essere un ‘tapu’, qualcosa di cui si parla molto difficilmente, di cui è meglio non trattare, come se non fosse mai esistito.
Ma la difficoltà della comunicazione, la reticenza a parlare dei problemi, il silenzio sulle situazioni difficili è un altro tratto ‘tipico’ della cultura italiana. Come se la parola, con la sua luce, mettesse troppo in chiaro situazioni che vanno mantenute nell’ombra e nel silenzio.
Ma il linguaggio, il parlare, portando a galla situazioni e problematiche che traggono la loro forza proprio dal silenzio che le avvolge, libera dalla paura dell’Innominato, dell’ignoto. Nominare consente di circoscrivere, di limitare simbolicamente un fenomeno con un nome, portandolo nella dimensione delle relazioni, del conosciuto. Nominare consente la condivisione, lo scambio, la costruzione di una visione che può essere anche critica, di ciò che si possiede.
Parlare, come dimostra lo sviluppo della psicologia, è terapeutico. Libera.
© Melissa Pignatelli