La guerra segreta della CIA, scritto da Steve Coll, è un libro che va letto. L’autore utilizza una mole impressionante di fonti – tra cui centinaia di interviste a funzionari americani, pakistani, afghani e sauditi – per tracciare le vicende della CIA in merito alla guerra afghana, dall’intervento sovietico del 1979 fino alla vigilia degli attentati del settembre 2001. Quello che sconcerta è il pensiero che da allora in fondo non sia cambiato poi molto, dato che la politica americana sembra ancora ferma al dilemma se combattere o negoziare con i Talebani, mentre il futuro dell’Afghanistan continua a restare oscuro.
Dal libro gli Stati Uniti escono decisamente ridimensionati rispetto alla comune immagine che si ha di una superpotenza mondiale. Coll infatti, attraverso lo specchio della CIA, mostra come gli USA siano un paese incredibilmente burocratico, dove l’esigenza di segretezza porta all’incomunicabilità tra uffici – ad esempio CIA ed FBI – su informazioni di interesse comune, come il terrorismo islamico. Un paese dove il controterrorismo ha le mani legate da norme procedurali, e dove prima di agire la CIA deve rivolgersi ai suoi legali per essere certa di non venire poi citata in giudizio.
Il libro traccia l’ascesa di Bin Laden, un’ascesa ignorata dai leader politici americani. Quello che emerge dalle pagine del poderoso volume (circa 800 pagine) è come negli Stati Uniti tutto fosse noto, dal doppio gioco del Pakistan alle intenzioni di Bin Laden, la cui vita – più di una volta – venne salvata dalle conseguenze politiche che un attentato mirato contro di lui avrebbe provocato negli USA. La CIA, anch’essa frazionata in una miriade di uffici non sempre in accordo, conosceva infatti più o meno ogni mossa dello sceicco saudita, ma non poteva che osservare impotente in mancanza di autorizzazioni ad agire, essendo inoltre fortemente vincolata dall’ossessione statunitense per i budget, al punto da arrivare allo scontro con i vertici delle forze armate per decidere chi dovesse accollarsi i costi legati alla sperimentazione di una nuova arma.
Addirittura diversi anni prima del 2001 era risaputo che Al-Qaeda stesse sviluppando progetti di attentati usando aerei civili, ma l’unica conseguenza fu che gli americani sommersero di allarmi le strutture di intelligence di mezzo mondo, comprese quelle di alleati poco affidabili ma che nessuno a Washington volle mettere in discussione, essendo troppo importanti a fini politici. Dal libro non escono bene nemmeno figure quali Bill Clinton e Bush Jr, ritenendo il primo il terrorismo una minaccia di secondo piano, ed essendo del tutto ignorante di politica estera il secondo. Curiosa in merito la notizia che, conoscendo la poca propensione alla lettura di Ronald Reagan, durante la sua presidenza la CIA sostituì i rapporti quotidiani con delle videocassette.
Gli Stati Uniti quindi come estremisti della democrazia, che davanti ad una minaccia probabile rifiutano di intervenire perchè un attacco a Bin Laden avrebbe provocato vittime civili, dove addirittura vengono fatte prove per capire quante stanze di un edificio sarebbero state distrutte da un certo calibro di proiettile. Un concetto di democrazia assoluto, quasi fideistico, incredibilmente rigido e poco adattabile alle singole situazioni. Risulta davvero difficile capire come un paese del genere possa confrontrarsi con una realtà totalmente diversa quale quella afghana, come ben emerge dalle parole dei guerriglieri legati a Massud. Questi restarono infatti sconcertati dalle richieste americane: ossia fare irruzione in una roccaforte talebana, catturare Bin Laden, ma stando bene attenti a non uccidere civili e rispondendo al fuoco solo in caso di “eventuale” resistenza nemica, come da regole d’ingaggio.
Un libro che fa riflettere, che mette in crisi – anche non volendo – concetti quali democrazia e diritti umani, che fa ragionare su quale sia il senso del limite oltre il quale le regole non valgono più. Ma quelli che emergono sono anche problemi culturali, legati alla capacità di capire il diverso, anche quando animati dalla più assoluta buona fede, e dall’opera di Coll questo emerge: un paese, gli Stati Uniti, talmente in buona fede da sembare stupido, dove decine di terroristi sgusciano tra le maglie di un sistema di controllo altamente tecnologico ma bloccato da iter autorizzativi. Resta certo il dubbio che il controllo totale non sia possibile, ma allora che senso ha controllare? E la democrazia è ancora una forma politica valida? Forse nemmeno l’11 settembre 2001 ha segnato una svolta, sebbene dopo quella data gli americani, come dichiarato da un agente della CIA, “si sono tolti i guanti“.
In fondo gli USA sembrano essere una ciclica dittatura democratica – i cui cicli sono segnati dalle elezioni presidenziali che rimettono in discussione ogni priorità – ossessionata (di nuovo) dal vincere a tutti i costi ma dimostrando di rispettare le regole del gioco; mentre altrove si combatte davvero.