Ash Vs Evil Dead
Stagione I
La
gente, quando mi scopre cresciuto a pane e horror anni ottanta, ne è
meravigliata. Non si direbbe, mi assicurano, data la mia inconsueta
apertura verso generi cinematografici ben diversi – ad esempio,
potete star sicuri che la romcom parlatissima, con lui che incontra
lei in tutte le combinazioni e le città d'arte possibili, qui avrà
sempre un posto speciale – e strano, aggiungono, che più attirato
dal sangue che dai cartoni animati sin da bambino, non sia poi
diventato un serial killer di fama mondiale. E qui sghignazzano e
fanno l'occhiolino. Scherzando scherzando, io rispondo che per quello
c'è sempre tempo. Allora, silenzi di tomba. Questo per dire che, tra
i miei registi cult, a sorpresa ma non troppo, c'è un certo Sam
Raimi. Autore, insieme ai fratelli, di Xena e Hercules,
che allietavano i miei pomeriggi su Italia Uno; del solo esempio di
cinecomic che mi è rimasto nel cuore, con l'insuperabile trilogia di
Spiderman; di horror a
basso budget – da non sottovalutare, per me, neanche il
divertentissimo e recente Drag Me To Hell –
visti con papà quando non avevo l'età. Ash Williams, in
particolare nel medievaleggiante L'armata delle tenebre,
era il mio eroe, vestito di cotta e maglia e umorismo a non finire.
La trilogia partita con Evil Dead –
una manciata di ragazzi in una baita nei boschi, forze maligne, il
trionfo dello splatter – era finita però prima che io nascessi,
nel 1992. E, senz'altro perché vi avevo assistitito in differita,
l'idea del remake al femminile di Fede Alvarez, nudo e crudo, mi
aveva dato diverse soddisfazioni. Da allora, più o meno, aspetto la
reunion. Annunciata, desiderata, attesissima in famiglia. Più di
vent'anni dopo, il simpatico Bruce Campbell – legato
indissolubilmente a quel ruolo e a quel regista – torna a
indossare, con ironia e una specie di strana commozione, una motosega
a mo' di guanto e a sfogliare il temibile Necronomicon.
Va verso i sessanta, ormai, ma la mano di legno e i racconti
sensazionali lo aiutano a rimorchiare nei bar. Finché, sbronzo e
piacione, si fa il bello agli occhi della sua ultima amante leggendo
i passi di quel libro scritto con il sangue, sulla pelle di un uomo
scuoiato. E risveglia così il Male. I demoni e l'oscurità, insieme
allo spettatore, lo trovano invecchiato, impreparato, ma sempre sul
pezzo. Lavora come commesso in un negozio di elettronica in stile Chuck Bartowski, vive in una
roulotte sgangherata, ha la dentiera e il busto ortopedico. Non perde
però il tocco. Ha una poliziotta che segue le sue tracce, un'alleata
– o è forse una nemica? - con il volto di una Lucy Lawless
affascinantissima e due pivelli come aiutanti: Ray Santiago,
messicano e imparentato con un brujo, e Dana DeLorenzo, bella e
capriciosa. Lui, inutile dirlo, è perdutamente cotto di lei. Morti e
battute ad effetto, effetti speciali artigianali, dieci episodi –
pochi e brevi, purtroppo – per le dieci tappe di uno spassaso
viaggio on the road, che grandi e piccoli bramavano. Raimi produce, e qualche volta dirige, un rinfrescante bagno di sangue e un
caloroso ritorno a casa. Anzi, nella Casa.
(7,5)
Mozart in the Jungle
Stagione II
Il
pubblico, elegantissimo, prende posto a sedere. L'invito al silenzio
e, dal palcoscenico, i primi arpeggi. Si apre il sipario e un uomo di
spalle, piccino ma energico, spinge la sua orchestra a grandi
trionfi. L'applauso, un altro. Dopo l'ingresso del maestro Rodrigo
alla Filarmonica di New York, le cose vanno meglio per tutti, o
quasi. Lo scorso anno, in una serie rivelazione targata Amazon,
nonché preziosa presenta ai Golden Globes di questo stesso 2016, un
direttore dal sangue caliente e dai metodi poco ortossi accoglieva a
braccia aperte l'avvento della novità. In tanti storcevano il naso,
davanti ai suoi capelli indomabili, al passato turbolento, alle prove
per strada. Ma quanto ci erano piaciuti, in realtà, gli spettri in
costume, il glamour della City, il suono di una leggerezza mai tanto
di classe? Quanto attendevamo un altro ciclo di episodi, per sapere
se il bacio tra Rodrigo e l'allieva Lola Kirke avrebbe avuto
ripercussioni e se la Filarmonica, gravemente indebitata, ce
l'avrebbe fatta a risollevarsi? Mozart in The Jungle
ritorna, tra dicembre e gennaio,
con un seguito all'altezza del non lontano inizio e piccoli dubbi
che, però, si rinnovano nel sottoscritto. Perché la serie,
benedetta da Chris Weitz e dai compagni di merenda di Sofia Coppola,
non si sa quando cominci né quando finisca. Mi spiego. Grandi attori
e colonna sonora immensa, ma come una povertà di temi, di stagione
in stagione. Cos'è successo nella prima, dopo l'arrivo di Rodrigo?
Cosa succede nella seconda, dopo il tour in America Latina? Poco,
pochissimo. Gloria, magnifica settantenne, scopre di possedere
notevoli doti canore – ma trattandosi di Bernadette Peters,
leggenda del musical, è poco lo stupore – e di avere ancora
l'età per concedersi un amore o due; l'oboista Hailey, con il
fidanzato ballerino impegnato in un reality show, ripensa alle
attenzioni del suo Maestro; Cynthia, sexy violoncellista, asseconda
le avance di un'avvocatessa che in tribunale però non fa faville;
Thomas, ed è impossibile a questo punto non nominare il granitico
Malcolm McDowell, lavora alla sinfonia di una vita e seppellisce nel frattempo l'ultima moglie. E cosa capita invece a Rodrigo, in cerca
dell'assistente perfetto e, per un arco di episodi, affetto da un
fastidioso disturbo uditivo? Sarà come Mozart, eterno enfant
terrible, o cagionevole come Beethoven? L'eleganza e l'ordine dello
skyline newyorkese, per un po', cedono il posto a una tournée sui mari del sud.
Al calore e al colore del Messico. Il buon cibo, le maledizioni, la
lettura dei fondi di caffè. Gli amori predetti dalle nonne sagge.
Esilarante e ricercato, leggero ma a volte impalpabile, Mozart
in the jungle è un
passatempo colto e rilassante, per melomani e non solo, a cui
questa volta manca maggiore consistenza e la sua città di
appartenza. Ma è tanto ben confezionato, tanto sovversivo, che
davanti a un Gael Garcia Bernal posseduto dal ritmo – vedeste
quanto è coinvolgente e naturale, mentre si dimena e tiene il tempo
– è impossibile trovare riparo dall'ispirazione e dall'allegria.
Contagiano. (7)
And Then There Were None
miniserie televisiva
Fulmini
e saette, un'isola privata tagliata fuori dal mondo, una chiave
maestra. Una pistola e, a un tavolo, sconosciuti invitati allo stesso
evento: ospiti in una casa labirintica, i cui padroni –
stranamente assenti – hanno lasciato il comando ai due domestici,
marito e moglie. Tra i piatti fumanti e le posate, al centro, dieci
strane statuine d'avorio, che rappresentano ognuno di loro. Dieci
vittime – e dieci colpevoli, perché tutti hanno la coscienza sporca – e un assassino che agisce inosservato. Una
dopo l'altra, le statuine scompaiono; uno dopo l'altro, gli ospiti
muoiono, seguendo l'ordine espresso in una
inquietante filastrocca per bambini. I superstiti, sospettosi e
pietrificati, vivono sul chi va là. L'indice puntato verso il
compagno, il dubbio persistente. In quella villa sferzata dal vento e
dalle acque, nessuno entra e nessuno esce: il male è tra loro,
l'inferno è in terra. And Then There Were None –
per noialtri, Dieci Piccoli Indiani
– è il titolo che, a un passo dall'anno nuovo, sotto le feste, si
è presentato alla mia porta, con la sua aria inglese al solito
impeccabile, il taglio cinematografico, un intreccio di cui non si è
mai stanchi a sufficienza. La BBC, in tre puntate, propone la
trasposizione del romanzo più celebre della regina del brivido,
Agatha Christie, e sorprende in maniera impensata. E da quando sbagliano, questi inglesi, chiederete? Invece, davanti a
riproposizioni edulcorate e alquanto mediocri – su tutte, l'ultimo
Lady Chatterley's Lover -, lo
scorso anno le mie convinzioni hanno vacillato. In prodotti
belli ma senz'anima, registi e autori che procedevano con il pilota
automatico, tanto savoir faire fine a sé stesso, la dizione troppo
perfetta dei britannici – e degli automi doc. And Then
There Were None, invece, ha un
apparato tecnico di tutto rispetto – fotografia cristallina,
scenari da sogno (ebbene sì, io faccio strani sogni), un montaggio
sonoro che regala sussulti – e personaggi al di sopra di ogni
sospetto che, nei flashback, vengono cesellati gradualmente.
In tre ore scarse, forma e contenuto hanno lo stesso peso. Il cast,
pieno di giovani promettenti e vecchie volpi, è dei migliori. Il
bellimbusto viziato di Douglas Booth, il mercenario dell'aitante
Aidan Turner, la tata impenetrabile della rivelazione australiana
Maeve Dermody. Tra gli altri, il giudice Charles Dance, la crudele
precettrice Miranda Richardson, l'eroe di guerra Sam Neil. Tutti
bravissimi e tutti in pericolo, in una storia vista e rivista –
purtroppo, a ventun anni, non ho mai letto il romanzo; una delle mie
tante, imperdonabili mancanze – il cui finale, culmine di una
orchestrazione senza stonature, sorprende anche oggi. Un autentico gioiello di
eleganza e scaltrezza. Era il trenta dicembre, per essere precisi.
Tardi, ormai, per le aggiunte dell'ultimo minuto al famoso listone.
Non abbastanza, comunque, per godersi un altro regalo del piccolo
schermo. (8)