Provano
con violenza a entrare nella sua stanza, ma un lucchetto blocca la
porta. Dall'altra parte, c'è una persona più determinata e forte:
il catenaccio non reggerà. Prima che la porta venga divelta, però,
e la sua camera invasa, Claire – vent'anni – scappa dalla
finestra. In borsa ha un biglietto per New York e un paio di
scarpette a punta. I suoi piedi e il suo talento la porteranno
lontano in tempi brevi. Entra subito in una compagnia di ballo, con
quel miscuglio di mistero e delicatezza che seduce maestri e
investitori, e su di lei – le linee perfette, un corpo pieno ma
leggero – viene cucito un ruolo da protagonista, per l'evento della
stagione. I coreografi la venerano, i colleghi – le colleghe,
soprattutto – la temono. Da dove sbuca quella spietata rivale, che
per un anno, chissà perché, ha abbandonato il palcoscenico? Cosa
raccontano i suoi silenzi, il suo rigore e l'incapacità a lasciarsi
andare, anima e corpo, a un'altra persona? Flesh & Bone –
miniserie in otto episodi sceneggiata dall'autrice di Breaking
Bad, prodotta dalla Starz e
subito distribuita, dopo un'ottima accoglienza al Festival di Roma,
nel nostro Paese – ha più di qualche debito nei confronti del
cinema di Altman e Aronofsky, ma i paragoni, tanto ragionevoli quanto
immediati, sorprendentemente reggono. La serie firmata da Moira Walley-Beckett non li
teme. Elegantissima, oscura, scritta a meraviglia. Ormai, non ci si
sorprende neanche più davanti a produzioni pensate per il piccolo
schermo che rigorose, di altissimi livelli, concorrono con il cinema
d'autore. Ma in un anno di delusioni in sala e, al contrario, di
grandi avventi telefilmici, Flesh & Bone
– rivelazione, come lo fu lo scorso anno The Affair –
ha, invece, ulteriori motivi per sorprendere. La perfezione con cui
si muovono i suoi ottimi protagonisti, che nascono come ballerini
classici e non come attori, e l'accuratezza con cui si esprimono. Le
coreografie magnifiche, i dialoghi intensi. Qualcuno, alla regia, che
per tutto il tempo ne sa catturare con classe i movimenti eterei e i
discorsi contingenti. La storia dell'inquieta Claire – ma
anche di comprimari tratteggiati con meticolosità, che è un dovere
ricordare: il poetico clochard del palazzo, il coreografo amareggiato
e vendicativo, la coinquilina invidiosa e il fratello possessivo –
mostra, con riflettori puntati più sui retroscena che sulla ribalta,
i livori e le difficoltà, la pressione psicologica e la dura
concorrenza. La musica classica sposa i toni noir, in uno spettacolo
conturbante e impalpabile, perfino sottilmente erotico, per scoprire
il costo dell'ambizione e il talento di una stella in ascesa. Sara
Hay, come il personaggio che impersona, si lascia guardare con occhi
incantati: è la Portman rigida di The Black Swan,
quella fatale di Closer. Gli
occhi da cerbiatto, un esordio dalla forte credibilità e forme da
capogiro, giacché anche l'occhio vuole la sua parte, che quest'anno – nel
famoso listone – rimpiazzeranno quelle della disinibita D'Addario di True Detective. Insieme a
lei, degni di nota, lo straordinario Damon Herriman –
il visionario senzatetto Romeo, con un nome che ci rivela già la
sua propensione alla tragedia – e il superbo Ben Daniels – un
diabolico direttore, l'equivalente per il balletto di ciò che J.K
Simmons è stato per il jazz, le cui follie da tiranno sono
bilanciate da segrete debolezze. Serie nuda e cruda, questa, ma anche
estremamente limata, sul peso degli angeli e dei sogni, in cui la
carne è tutta un livido – le unghie degli alluci saltano, si dorme
scomodi per mantenere una determinata postura – e le ossa, con una
piroetta sbagliata, si spezzano in mille pezzi. Sull'abbracciare il
proprio lato oscuro, per conoscere prima com'è fatto il corpo, poi
com'è fatta l'anima. Claire insegue la perfezione, ricerca la
trascendenza e, se il suo fisico non ha limiti, deve però esplorare
la propria sessualità, i propri vergognosi segreti, per eccellere. Perché non c'è un cigno bianco, senza il cigno nero. (7,5)
Siamo
nel cuore degli anni ottanta. David, diciannove
anni, ha rimediato un impiego per la bella stagione. Per tre mesi,
insegnerà tennis e, con qualche amico, trascorrerà in allegria il
periodo dei grandi cambiamenti in un prestigioso club privato. Mentre i suoi genitori pensano a una
probabile separazione – il padre si è ripreso per miracolo da un
infarto, la mamma nasconde tendenze omosessuali -, il
protagonista, come la tradizione del romanzo di formazione prevede,
metterà in discussione sogni e vecchi propositi. Vuole diventare un
noioso contabile, come il suo vecchio? Vuole avere una famiglia, un
giorno, con la bella Karen, insegnante di aerobica, o abbandonerebbe
tutto per posare, come mamma l'ha fatto, per la fatale Skye, figlia
del boss? Accanto a lui, l'inseparabile amico Wheeler, cotto di una
bagnina biondissima e coinvolto in un traffico di
stupefacenti, e il collega Nash, immaturo quarantenne. Red
Oaks, comedy in dieci episodi
prodotta da Amazon, debutta ufficialmente quest'anno, dopo che il
pilot – diretto dal David Gordon Green –
era stato bene accolto in rete. Dalla sua ha la ricostruzione
riuscita degli anni che mi sono perso e la voglia di omaggiare
personalmente la commedia americana di Hughes e Landis. Si inseguono
i cliché – i capelli cotonati; i pantaloni a vita alta; i campus
che solo in un certo tipo di cinema – e, a volte, in venti minuti, si
girano piccoli, liberi remake. In uno degli ultimi episodi, infatti,
senza ombra di dubbio il più divertente, David e suo padre si scambiano i
ruoli: per una giornata, l'uno nel corpo dell'altro, giocheranno al
gioco di Quel
pazzo venerdì. Metteteci un
protagonista impacciato il giusto, come il bravo Craig Roberts della
rivelazione Submarine –
rivelazione che a me, a onor del vero, non si è ancora rivelata: non l'ho visto -, e la partecipazione di
un'autentica meteora, la Jennifer Grey che non si vedeva sugli
schermi dai fasti di Dirty Dancing.
Gli episodi volano e, sulla falsa riga di serie con le quali non ho
poi proseguito, il noioso Aquarius
e l'idiota Wet Hot American Summer,
ad esempio, si eleva a protagonista un decennio mai passato di moda e
puntualmente rimpianto dai nostalgici. E si fa bene così, molto. Una
stagione per parlare di un'estate cruciale, in
cui a non convincere – o meglio, a convincere più la critica che
il pubblico – è la pretesa di serietà che la partecipazione del
braccio destro dell'impegnato Soderbergh, tra gli autori, vorrebbe
assicurare. A ricordarci che è pimpante, leggero, scanzonato, più
le apparenze – un protagonista in cui mi rivedo
un po' e uno sfondo da sogno - che la scrittura, indecisa tra il
serio e il comico. Stranamente, si rimpiangono le becere risate che
mancano: con più umorismo, e anche
più volgarità, l'omaggio poteva risultare meno studiato ma
maggiormente di cuore. Con meno rigore nascosto, Red Oaks
– per me, comunque carino - poteva diventare un'indispensabile compagnia per le estati presenti e future. (6,5)
Lui
ha l'indiscreto fascino del nerd e scrive per una rivista che si occupa di cinema e
dintorni. Lei mostra meno dei suoi anni e fa l'artista. Loro, che hanno quasi lo stesso identico nome, si
svegliano insieme e insieme vanno a dormire, in un appartamentino
affacciato su una New York spassionatamente indie. Ma quello che, nel
primo episodio, sembra il più classico dei boy meets girl – con
tanto di dialoghi che durano minuti e minuti e personaggi fatti a
modo loro – ha in serbo un colpo di scena. Lui, infatti, ha
conosciuto lei quando erano adolescenti, a casa di papà. I loro
genitori si sono sposati in seconde nozze e questo fa di loro,
all'inizio scontrosi e da grandi amanti appassionati, fratello e
sorella. Più precisamente, fratellastri. Cosa direbbero, scoprendo
la loro relazione nascosta, i parenti, i colleghi, la cameriera della
tavola calda? Il mondo è pronto a vederli come coppia, senza trovare
la cosa strana o, peggio, morbosa? Billy & Billie è
una commedia (alternativamente) romantica a episodi. Ha una
fotografia e un gusto che non sapete – o forse sì? - quanto mi
vanno a genio e tutti gli ingredienti giusti. Una narrazione
originale – i trenta minuti sono scanditi, infatti, come se
leggessimo una sceneggiatura – e due protagonisti belli e valenti. Non manca nemmeno una specie di
autorialità di fondo. Le puntate sono state scritte e dirette dalla
stessa mano: regista e ideatore, un Neil LaBute – quello
dell'esecrabile The Wicker Man, ma
anche del buon Possession: Una storia romantica –
che dal suo ultimo Some Velvet Morning,
ben orchestrato e recitato meglio ancora, prende l'impianto teatrale, ciò che piace al TriBeCa. Lì i protagonisti erano
appena due, qui non mancano i comprimari – i genitori angosciati,
gli amici stravaganti, i fratelli che gli strani innamorati hanno,
loro malgrado, in comune. Lo spettatore, però, non ha occhi che per Lisa Joyce e per Adam Brody; idolatrato dal
sottroscritto, quest'ultimo, per The O.C, quando
ero appena un bambino e Seth Cohen mi pareva il massimo dello stile. Quando sono
insieme, nella stessa inquadratura, piacciono tanto.
Separati, invece, meno, con routine che interessano fino a un certo
punto e rimpiazzi amorosi che, appunto, sono solo meri rimpiazzi. Billy
and Billie ha i suoi ritmi, che
possono piacere oppure no, ma una storia che poteva stare nei canonici novanta minuti. Avrei apprezzato maggiormente e non lo avrei trovato, a
tratti, tanto statico. Mi sarebbero sembrati meno ripetitivi i
tiri e molla e le controversie, alla luce della mia mentalità aperta
– non siete parenti effettivi, fate un po' come vi pare e viva l'amore – e di scheletri nell'armadio a forma di Cesaroni, che mi ricordano
che nella nostra arretrata Italia, ancora prima di Billy e Billie, c'erano la
Mastronardi e Branciamore. E, dal poco che avevo colto facendo
zapping, non la facevano mica così difficile. (5,5)