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I ♥ Telefilm: Glee, The Casual Vacancy, Looking

Creato il 31 marzo 2015 da Mik_94
I ♥ Telefilm: Glee, The Casual Vacancy, Looking Glee The Final Season Al tramonto del Glee Club, ho rinnegato l'universo e cuore a cuore con la tivù, pronto ai playback – perché ero certo che Don't Stop Believing sarebbe rispuntata – e a tamponare qualche lacrima furtiva. Questione di moscerini nell'occhio. O magari di sciami d'ape, o di ante di armadie a muri. Cose così. Non ho il pianto facile, è che sono un nostalgico. Pensavo che mi sarei commosso per quello che era stato e perciò mi ero barricato nella mia ricercata solitudine: se ci fossero stati i lacrimoni, ci sarei stato solo io. Non mi piace che ci sia gente intorno, quand'è così. Gli addii sono cosa personalissima: gli addii sono cosa mia. In pubblico pare brutto. Uno si trattiene. E l'ipotetico pubblico, a meno che non sia cresciuto con noi, non sa che cosa ha significato Glee all'epoca del ginnasio, dei passi incerti, delle cuffie dell'iPod fuse nelle orecchie, col mondo e i genitori contro. Chi guarda abitualmente serie Tv lo avrà sentito nominare: sa che è quella serie sugli adolescenti canterini, di cui la giovane star principale è morta in un'estate crudele per overdose, lasciando la produzione in balìa di scritture incerte, comprimari jolly, stagioni improvvisate da scordare. Lo scorso anno, una stagione scritta a mo' di fanfiction, quando tutto sembrava perduto, mi avrebbe risollevato: sarebbe stata il male minore. Se lo avete abbandonato, recuperate a tempo perso questi rassicuranti tredici episodi per vedere che lo cose vanno come era giusto che andassero: la morte di Cory ha messo in ballo tutto e il finale con Lea Michele che, dopo Broadway, torna a casa, dal suo Finn, è un'immagine bella e commovente che, purtroppo, non può essere. Era stata evocata in The Quarteback, quel vecchio episodio commemorativo che mi aveva fatto piangere il mare. Lucidamente, posso dirvi che qui c'è troppo. Mi piacciono le storie sospese, i sapori agrodolci e tutto mi è sembrato troppo affollato, troppo colorato, troppo felice, come se ci fosse il bisogno di mettere tutti i puntini sulle loro care i. Quella atmosfera di festa contagia, I lived la canti appresso a loro e ai OneRepublic, ma pensi. Pensi e dici che l'episodio della stagione scorda – “New Directions” – sarebbe stato senz'altro più perfetto per tirare le somme, beccandoti inconsolabile. Io la quinta serie l'ho detestata e non potevo credere che a Glee avessero fatto quello. Lo avevano forzato, scardinato, trasferito a New York. Ma Glee era roba di provincia e ragazzi qualunque, di hit da karaoke e buoni sentimenti, di aule e corridoi: una compagnia per superare gli anni del liceo. Va avanti da sei anni; tanti. Mi sfiora questo: la consapevolezza di quanto veloce passi il tempo, di cosa cambi e cosa invece no; l'immagine del vecchio me che, come il nuovo, d'altronde, stenta ad accettare i mutamenti tutt'intorno. Questo serial mi ha preso ragazzino e mi ha lasciato sulla soglia dei ventuno, proprio come Harry Potter – che, per carità, ha avuto ben altro significato – mi aveva conosciuto alle elementari e abbandonato otto film (e sette romanzi) dopo. L'ultimo episodio di Glee si è concluso all'insegna del benessere e della leggerezza e sono andato a dormire con l'animo sereno, quando invece mi aspettavo – emotivamente – meglio e peggio insieme. A scuotermi è l'idea che non ci sarà la settimana prossima, che dovrò trovarmi altri compagni di viaggio per altre avventure quotidiane: la chiusa mi ha lasciato soddisfatto, ma con gli occhi asciutti e con un po' di cose da dire. Dio, sono più Sue Silvester che Will. Preoccupante? A onor del vero, dunque, i due episodi conclusi – un ritorno al 2009 e un rigoroso The End – si trascinano gli stessi difetti di un'ultima stagione imperfetta, frettolosa, ma con la dote generosa della coerenza. Passi avanti rispetto allo scatafascio dello scorso anno. Ci si poteva comunque auspicare qualcosa di maggiormente curato, ma se hai resistito per sei anni – nella buona e nella cattiva sorte – eri preparato ai nuovi personaggi poco incisivi, alle punte kitsch, a una colonna sonora che purtroppo regala stentati picchi. Ma la cosa più bella e più brutta che posso dire della sesta stagione sapete qual è? Glee sembra scritto dai fan. C'è un certo provincialismo in questo, vero; una tendenza ai finali più che rosei rosa shocking - con matrimoni, futuri gloriosi, salti avanti e indietro, nodi che vengono al pettine -; ma c'è anche fedeleltà, amore. Sconfinato, cieco e stupido amore da parte di chi gli ha voluto tanto bene, mentre lo rendeva così, su misura di spettatore, e lui ci rendeva di conseguenza così, a un passo dal sogno. (6/7)
I ♥ Telefilm: Glee, The Casual Vacancy, Looking The Casual Vacancy: Il Seggio Vacante Miniserie tv Quando è arrivato in libreria, Il seggio vacante ha fatto parlare di sé. Prevedibile quando una dell'autrici più influenti del mondo, nome di spicco nel mondo della narrativa per ragazzi e non solo, si presenta con un imprevisto malloppone giallo e rosso, in cui tutto ruoto attorno alle imminenti elezioni cittadine e a un microcosmo perfettamente reso in cui ci si comporta da razzisti, traditori, egoisti: esseri umani. Il seggio vacante era una lunga commedia dai toni sarcastici, con personaggi popolosi e un umorismo britannico che lasciava scie velenose. I capitoli erano una finestra segreta sulle famiglie di Pagford. La scrittura, ora elegante e ora cruda, dava voce a giovani e vecchi impegnati in una lotta di classe di notevoli proporzioni: cosa farne dei Fields, quelle vecchie case popolari, covo di drogati e accattoni, che deturpano il volto di una ridente cittadina? Alcuni volevano smantellarle e fare spazio a hotel di lusso. Altri pensavano, invece, che sbattere per strada famiglie a casaccio non fosse per nulla cortese. Nelle discussioni, si era raggiunta la parità: i Fields restavano. Ma morto l'uomo più generoso della comunità, il suo posto al consiglio sarà occupato dal figlio di un viscido conservatore, da un timido prof del liceo o dal subdolo fratello dell'estinto? Mentre le mogli modello danno forfait e la prole ribelle urla la propria insofferenza, con un misterioso hacker disposto a portare alla luce del sole i loro sporchi segreti, i tre candidati ci diverteranno – perché loro si divertiranno un po' meno – con una galleria di intrighi, rivelazioni, inciuci. Il The Casual Vacancy col marchio BBC si segue bene, risulta ben scritto e ben recitato, ma tre episodi bastano giusto per dare una vaga idea di quel che è. E non parlo da lettore che si diletta coi soliti paragoni e che dice che tanto il libro è meglio: il libro lo ricordavo poco, sinceramente. Il primo episodio, introduttivo e minuzioso, mi ha lasciato stranito. Era la Londra di Skins, a tratti, non quella di Downtown Abbey e leggendo lo immaginavo più raffinato... ma penso fossero semplici suggestioni da Harry Potter. Al secondo mi sono ricreduto: perfetto. Il terzo, per me decisivo nella valutazione, finisce e tu, quasi quasi, aspetteresti il successivo, pur sapendo che non c'è. Si stenta a cogliere il punto, insomma, quando nel romanzo tutto mi era parso al proprio posto. Relegate a personaggi di contorno Gaia, la nuova arrivata in città, e la taciturna figlia della Dottoressa Jawanda, anche se accanto ai veterani Michael Gambon (ma sì, è lui: Silente), Rory Kinnear e Julie “Miss Marple” McKenzie, rivelazione sono i giovani del cast: l'esordiente Abigail Lawrie, ad esempio, è la Krystal che ricordavo. Sputata. Blogger mi dice che, nel 2012, Il seggio vacante lo avevo amato: i dialoghi dal forte impianto teatrale sono pane per i miei denti e lo stile della Rowling restava comunque una garanzia. La notizia di una miniserie tv, quando la stessa autrice si era detta dubbiosa, mi aveva reso a mia volta dubbioso, ma curiosissimo. Sono passati tre anni. Nonostante la trama semplice, The Casual Vacancy in tre ore stenta a starci. Si guarda, ha il giusto mix di cattiveria e leggerezza, una fotografia splendida, ma quel romanzo tutto pensieri, pieno di nomi e situazioni, rende poco così, come renderebbe altrettanto poco in un film. Non che la resa non sia all'altezza della situazione, ma l'idea di una riduzione – e parlo di riduzione non a caso; di un riassunto alla buona – era difettosa a priori. (6) I ♥ Telefilm: Glee, The Casual Vacancy, Looking Looking II Stagione Lo scorso anno, al suo inizio, Looking sembrava promettente. La HBO ad assicurare indiscussa qualità (e non manca), un cast tutto al maschile (e quello c'è), atmosfere da Sundance (presenti all'appello, insieme a un immancabile fare hypster, a una colonna sonora dai colori indie, a una San Francisco piena di malinconica e luci baluginanti), amori che vanno ma amici che fedelmente restano (ed eccola qui la promessa mancata, e non è cosa da poco). Alla fine di una seconda stagione non attesa, consumata tutta insieme, senza dilungaggini o momenti di noia, potrei ancora dire che Looking sembra promettente. Ma il promettente è un qualcosa che di per sé è destinato a prendere forma in tempi ragionevoli. Qui sono passati due anni e ci si rende conto che l'aggettivo promettente è andato in giacenza; lascia il tempo che trova. In parte, colpa della cancellazione, che ci priverà di una terza stagione che nessuno piangerà davvero; in parte, colpa dei creatori, abili con i loro corposi dialoghi e il resto, ma incapaci di dare al prodotto una direzione marcata. Lo spettatore armato della pazienza che non ho avrebbe potuto aspettare una necessaria messa a fuoco, ma quanto? E ci sarebbe stata, alla fine? Un senso di irrisolto, di incompiuto, mi rendono perciò critico verso questo nuovo ciclo di episodi che, in realtà, mi sono parsi anche più spediti di quelli dello scorso anno. Ma con il guaio di risultare al solito autoreferenziali, chiusi, compiaciuti. Come è stato un anno fa, ho apprezzato l'intimità che si respira, gli attori credibili e una macchina da presa poco invadente. Quello che avevo sperato – e mi è venuto in soccorso un vecchio post affidato alla lunga memoria di Blogger – era il rimarcare, in futuro, la “s” dei plurali. Era paragonato a Girls, ma a Looking mancava quel senso di collettività e amicizia che ancora manca. Ho trovato Patrick, Dom e Augustine ancora più distanti e la scelta di focalizzarsi sulla vicenda sentimentale del primo e di mettere in ombra gli altri due pesa: il nerd Patrick, con le sue insicurezze e la cotta per il capo, ha più personalità dei suoi amici, destinati a essere comprimari di passaggio, ma è colpa di una struttura che dà eccessiva importanza al primo e troppa poca agli altri, eternamente macchiette. A fare bella figura è il bravo Jonathan Groff scoperto con Glee, ma Dom è fermo dove l'avevamo lasciato e Augustine, strampalato ed eccentrico, si è dato al volontariato. L'unico a essersi messo in marcia, in cerca di solo lui sa cosa, è proprio Patrick E sembrava averla trovata, quella cosa, vicino al simpatico e traditore Russell Tovey, prima che il finale mettesse in discussione tutto. Finale che ho trovato cresciuto, significativo, ma col problema di essere indeciso come il resto. Con Patrick che confessa umanamente i suoi bisogni e le sue gelosie, Kevin che si mostra terrorizzato dalla convivenza, poligamia sì e poligamia no, tagli di capelli indici di cambiamento. Looking ha il pregio, per me, di fare passi avanti episodio dopo episodio – ai primi, insinceri e statici, se ne affiancano alcuni degni di nota e, a sorpresa, sono proprio quelli che chiudono il cerchio – ma con troppa indolenza di fondo. Resta e resterà una di quelle cose bollate come eternamente promettenti, ma destinate a non fare il botto. Tipo quell'allievo spigliato e versatile che si ritira dagli studi prima di prendere la laurea, mentre gli ultimi della classe si sposano e cominciano a comportarsi finalmente da grandi. (6,5)

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