Stagione II
Lo
scorso anno avevo conosciuto l'amata, odiata Shonda Rhimes qui, a
scuola di crimine. Un legal thriller semiserio, seducente,
velocissimo, per chi come me con gli avvocati in tivù ha un
brutto rapporto e il più noto Scandal,
recuperato in estate, non lo seguiva ancora. How to get
away with murder ti insegnava a
farti andare a genio l'autrice più prolifica della storia del
piccolo schermo e a farla franca
con il sangue freddo e la fedina penale pulita, in caso di moderni
delitti e castighi. Nemico giurato delle maratone tanto quanto dei personaggi in toga, avevo trovato nella
spregiudicata Annalise Keating e nei suoi cattivi allievi una
sorprendente eccezione e un titolo da inserire, lo scorso anno, ai
margini del mio listone. Guilty pleasure ma non troppo, il primo How
to get away me l'ero bevuto in
un sorso. E l'autunno successivo, mi accorgevo, restava la sete.
Puntuale la seconda stagione e la terza, da quel che leggo, è già
certezza, ma a malincuore i nuovi appuntamenti oltre il nastro
giallo, tra aule universitarie e salottini esclusivi, deludono e
annoiano un po'. In tempi non lontani l'interrogativo era uno,
incalzante: chi aveva ucciso il marito della
protagonista? Questa volta, invece, la
stagione ruota attorno a una nuova domanda, a un ennesimo caso, anche
se le risposte si perdono, in una storyline che fa il passo più
lungo della gamba e frequentemente si smarrisce. L'indagine portante
ruoterebbe, comunque, attorno a due fratelli, accusati di avere
assassinato i genitori adottivi, in nome di una ricca eredità e,
mormorano i rotocalchi, del loro amore incestuoso. Come da
tradizione, si gioca con flashback e anticipazioni, e l'effetto dèjà
vu all'inizio cattura: i discepoli riuniti, di nuovo, sulla scena del
delitto perfetto. Quello di una Annalise agonizzante in una pozza di
sangue, ferita – mortalmente? - da uno di loro. Prima della pausa
per le vacanze natalizie, abbiamo una decina di episodi nella media:
il giallo è classico, senza grossi guizzi. Dopo, con l'anno nuovo,
How to get away with murder predilige
l'indagine psicologica, i viaggi nel passato, l'introspezione. Si
parla di un bambino mai venuto al mondo, della relazione della
selvaggia avvocatessa con il traditore Sam e con una affascinante
collega – quella Famke Janssen incapace di invecchiare -,
dell'imprinting istintivo con il bisognoso Wes. Cosa sa delle origini di lui? E quanto è coinvolta nel
suicidio della madre, testimone in un processo scomodo? La storyline è frastagliata, sfilacciata,
e l'indagine su quei fratelli assassini, ma al di sopra di ogni
sospesto, né intriga né interessa. Il lato negativo, quello che fa
pendere la bilancia verso la delusione, è l'importanza smodata data
ai comprimari. Coi pregi e i difetti che ciò comporta. Si perde
spesso il punto della situazione, dunque, e in mezzo a
coppie improbabili, sicari affranti e riunioni familiari, Alfred
Enoch – tanto per fare un esempio - si mostra incapace di dare
spessore al suo Wes e Jack Falahee, ammirato in precedenza per la
faccia tosta e l'insolenza, accasato col noioso Oliver, appende al
chiodo l'indole di Connor. E la domanda, abbandonata quella iniziale, diventa man mano un'altra: ma a noi che importa?
Di chi se la spassa con chi, della Keating bisex, di salti in avanti
e indietro che, quest'anno, si fanno seguire con distrazione? La
Shonda (inter)nazionale, dunque, rivela le falle delle sue infinite
trame e ci dà conferma del talento di una Viola Davis tappa
buchi, più mattatrice del solito: vulnerabile, umana,
materna. A tratti, straordinaria. E questo How to get away che
a volte ritorna, in definitiva, vive solo di lei, spietata e
inaffidabile, quando invece vorrebbe coinvolgere l'intera classe che
affolla l'ingresso della protagonista notte e dì. L'udienza è sciolta.
La corte e il sottoscritto si aggiornerano in data da destinarsi, per concedersi un'altra possibilità. (6)
Stagione II
Lo
avevamo cantato, ballato, accolto calorosamente. Galavant,
intonatissima comedy di cappa e spada, lo scorso inverno, quanto ci
aveva stupito? Debuttato con Once Upon a Time in
pausa, e dire che quella serie io l'ho abbandonata anni e anni fa,
aveva dieci episodi di venti minuti ciascuno, situazioni brillanti e,
soprattutto, canzoni così orecchiabili da convincere anche chi il
musical, al contrario mio, non lo tollera. Il segreto: leggerezza da
vendere, un cast freschissimo e, a scrivere e comporre, tra gli
altri, lo stesso Alan Menkel che vanta diciannove
nomination e otto vittorie agli Oscar, nella categoria delle
migliori colonne sonore. Record, dite? Ma dove li avevamo lasciati,
365 giorni fa, e cos'è di loro, sopravvissuti alla cancellazione già
una volta e separati e lontani, ormai, a causa di una trama più ampia e di imprevedibili incidenti di percorso? Lo scopriamo
con una canzone: anche il riassunto delle puntate precedenti,
infatti, in Galavant è
un'occasione in più per cantarsela. Isabella, in definitiva il vero
amore del nostro eroe, è tenuta sotto chiave: deve sposare a forza
suo cugino, che per avere una decina di anni è un vero demonio, e
vincere le insidie di un wedding planner stregone che l'ha soggiogata
con un diadema magico. Madalena, vendicativa ex ragazza, regna con il boia Gareth sul regno che fu di quel marito
mai stimato. Il protagonista e King Richard, invece, suo storico
rivale, si sono alleati: amici per la pelle, adesso, devono salvare
l'amata, riconquistare il trono, guidare un esercito di non-morti in
una battaglia che vedrà contrapposti ben tre schieramenti.
Interverranno il paranormale – con morti e resurrezioni, lucertole
che forse sono draghi dormienti o forse no, regine che per la
vittoria venderebbero quel poco di anima che resta loro – e, lungo
il tragitto, tappa obbligatoria presso regni che portano a nuovi
sorrisi e a ennesimi grattacapi, la riconciliazione con famiglie
imperfette, il coinvolgimento nella secolare disputa tra (non) nani e
(non) giganti. Meno spazio per i comprimari a me tanto cari – i
fedeli servitori, i funzionari reali – , ma altrettante canzoni da
fischiettare, altrettante ore spese in assoluta allegria. Due puntate
in più, rispetto alla prima stagione, ma è l'effetto sorpresa che, questa volta, purtroppo non si
ripete.
Restano
le canzoni, folli e sempre a tema; le interpretazioni a fuoco e i
cameo inaspettati – quello della Minogue, ad esempio, che nel bel
Joshua Sasse ha trovato anche un toy boy da ostentare; l'incertezza
del rinnovo. La cancellazione è un orso, ci cantano nella canzone
conclusiva, e chissà se, come il caro Leo in Revenant,
riusciranno di nuovo a spuntarla senza ferite. (6,5)
Stagione V
Il
cinema italiano sta facendo passi da gigante. E se vi dicessi che
anche la tivù, talora, sorprende, mi prendereste in parola? Erano
già cinque anni che non lo vedevamo muoversi, cafone e mitologico al
solito, sul piccolo schermo. Non c'era il blog, e non avevo potuto
parlarvi di me, afflittissimo, che mi logoravo per l'incertezza di un
nuova, eventuale stagione. Non c'era il blog e, nel mio piccolo, non
avevevo potuto illuminare gli scettici sulle mirabolanti prodezze dell'ispettore che spara, fa centro e conquista. Quando meno te lo
aspetti, L'ispettore Coliandro – la serie italiana più
figa su piazza: okay che poco ci vuole, uno dice – rispunta sui
palinsesti, con gioia e sommo gaudio da parte del sottoscritto e
famiglia. Non lo avete neanche incrociato, dieci anni fa, quando, in
sordina, faceva il suo esordio su Rai Due? Il primo caso è una
storia di mafia russa e bionde siberiane; il secondo, nella campagna
bolognese, lo vuole impegnato a proteggere un testimone autistico; il
terzo, con il colpo di fulmine per un'esotica barista non udente e le
pressioni del medico legale ultrasessantenne, lo trascinerà sulla
pista da ballo; il quarto – il mio preferito, insieme all'ultimo –
lo renderà senza memoria e spietato, all'indomani di un brutta botta
in testa; il quinto, tra i peggiori, lo vorrà Taxi Driver
tricolore in compagnia di una ex e
procace miss; il sesto, alla fine di un ciclo, ci darà filo da
torcere: il nostro eroe, dato per morto, è infatti prigioniero nello
scantinato di un'affascinante e fragile Psycho al
femminile. Le citazioni grandi e piccine, una scrittura intelligente,
battute cult, la partecipazione vivissima di gente che crede nel
proprio lavoro. Quelle partner che, per dirla a modo suo, più che
bellissime sono “scopabili”, i colleghi affezionati – la
Bertaccini, che ha sposato da poco la sua compagna; Gargiulo e le
lasagne di mammà; la risata con sfiato di Gamberini – e, tra una
pagina Facebook sempre aggiornata e iniziative nei locali della
capitale emiliana, tanta voglia di ringraziare chi di Coliandro ha
curato il successo e il prezioso ritorno. Nato dalla penna di Carlo
Lucarelli, L'ispettore Coliandro
– sbirro provetto ma non troppo, che in ogni puntata cambia caso e
ragazza, come un James Bond pane e salame – ha episodi di novanta
minuti, perfettamente autoconclusivi, e cinque stagioni brevissime.
Alla regia, gli immancabili Manetti Bros e nel cast, accanto a
presenze ricorrenti e vecchie conoscenze, uno Giampaolo Morelli da
idolatrare seduta stante. Insieme, sempre affiatati, divertentissimi
e di corsa, avete già potuto ammirali, ad esempio, in quel delizioso
mix di hard boiled e canzone neomelodica che era Song'e
Napule. In una colorata Bologna
criminale, inquadrata dall'alto coi droni e, con la sua turbolenta
movida notturna purtroppo piena di spunti, la legge ha il volto
squadrato – la giacca di pelle, gli occhiali di sole anche di notte
e, sotto, un occhio azzurro un po' malandrino – di un agente di
polizia cresciuto con il sogno di Eastwood, Tomas Milian, gli
sparatutto anni '70. Egocentrico, sboccato, maschilista e fiero di
esserlo, Coliandro – che un nome di battesimo non sembra proprio
averlo, giacché ispettore lo nacque – inciampa per la quinta
volta, così, in crimini, fanciulle e meriti. E, senza bisogno di un aggettivo di troppo, lo si riassume con un
“bestiale” dei suoi. (7,5)