Magazine Cultura
miniserie tv
Avrei avuto bisogno che qualcuno mi rassicurasse. Che mi dicesse ma no, Michè, guardalo Olive Kitteridge perché non ti annoi. Quattro ore complessive che sembran tante, la vita comunissima di una donna americana di cui sinceramente chi se ne frega, a produrre quella HBO che non sbaglia mai ma ha i suoi ritmi non da tutti. Anche True Detective, bellissimo, avevo dovuto lasciarlo e prenderlo, perché andava pianissimo. Ma chi va piano va sano e va lontano. Io pure ho i miei tempi: ho fatto passare cinque mesi prima di vedere questa miniserie, con la scusa di volere recuperare l'omonimo romanzato di Elizabeth Strout, quando l'intenzione c'era ma mica tanto. Stava bene in wishlist, ma chissà sul mio comodino... Certi romanzi non li leggo per paura che non mi piacciano, che non ci stia troppo appresso, e che abbia di conseguenza vergogna ad ammetterlo pubblicamente. Come ci si comporta con le autrici premio Pulitzer? Arrivo sempre un po' in ritardo, perciò, ma arrivo. La regola del perfetto scribacchino impone la creazione di un protagonista che sia quasi sempre affabile e accondiscendente: un personaggio facile da condurre nelle danze. Altrimenti né scrittore né lettore sanno gestirlo. Olive è l'eccezione. La maestra di matematica che ti terrorizzava alle elementari, la vecchia bisbetica che ti scaccia dal suo giardino, la genitrice normativa e fredda. Come capita parlando dei miei nonni, di quanto siano diventati irascibili con l'età, uno butta la scusa sugli acciacchi della vecchiaia, pesi sull'anima. Invece lei, eroina eponima, era sgradevole anche da giovane, con un grande amore represso, un figlio mediocre, un marito bonario che avrebbe meritato una donna migliore. Richard Jenkins, marito esemplare e uomo dolcissimo, ha la triste sorte della gente troppo buona e il personaggio più adorabile in circolazione, che si sposa benissimo con il suo sorriso rassicurante: come non volergli bene? La sua poco dolce metà – accanto alla svampita Zoe Kazan, a Rosemarie DeWitt, a un Bill Murray a sorpresa – è la meravigliosa Frances McDormand, alle prese con il ruolo di una carriera. Lei so chi è, so che è bravissima, ma non saprei dirvi così, su due piedi, che film abbia fatto: eterna comprimaria, finalmente resta impressa con un ruolo interessantissimo e arduo, all'interno di produzione magistrale che ruota intorno a lei. Parte dalla fine, con un bosco in autunno, un picnic solitario e un colpo in canna. Come Colin Firth in A Single Man, sola, ma con meno desiderio di farsi bella e più voglia di ridere (dei guai altrui). Olive ti scaccia e pensa a morire in santa pace, cerca il tuo odio, ma è per questo che la adori e continui a cercare la sua compagnia quando i quattro episodi finiscono. E' come quello Stoner che voglio leggere e quell'Academy Street che sarà la mia prossima lettura. La storia di una vita ordinaria. Gli episodi mostrano come una convinta misantropa possa essere importante, suo malgrado, per l'altro: in alcuni è un comprimario; in altri una semplice comparsa; e solo alla fine diventa protagonista assoluta, nel ritratto di una solitudine crudele che strazia. Quarant'anni che fluiscono mentre i volti invecchiano gradualmente, le calze contenitive comprimono le vene varicose, i figli si sposano e divorziano, la pianista del bar va a suonare negli ospizi, appeso al chiodo un sogno. Mi sembra pleonastico parlare del resto, ma proviamoci: la qualità dell'intera resa che tocca livelli straordinari, il certosino lavoro dei truccatori, l'ingiustizia che ai Golden Globe non abbia vinto niente quando meritava tutto, la complessità di uno script che non deprime né annoia, strappandoti un mondo di risate e anche qualche gemito. Non la classica storia nelle mie corde di una Scrooge donna che impara ad amare. Alcuni uomini nascono con cuori da casalinghe, alcune donne con attributi da generali nazisti, e Olive Kitteridge celebra gli scherzi della vita, gli incastri perfetti e la coincidentia oppositorum. Basta avere un Henry accanto, un bassotto disobbediente, stringere i denti. E non lo faccio, non mi piace procedere al contrario, ma questa volta sì. Un'eccezione per una protagonista eccezione. Vedere la trasposizione televisiva – e l'aggettivo “televisivo” è da virgolettare, perché Olive Kitteridge è meglio di tanto cinema: sicuramente meglio di tutto il cinema visto nei primi mesi dell'anno nuovo – e avere voglia di recuperare il romanzo. Per saperne di più e per avere Olive accanto, nonostante le sue occhiate torve a dire che farebbe a meno di me: un lettore di meno, un guardone di meno. Uno di meno a giudicarla una cattiva madre, una moglie senza amore, una vicina sgarbata: una bastarda, e per sua stessa natura, senza desiderio di espiazione. (8,5)
Shameless
V Stagione
Il primo mese dell'anno e il ritorno delle serie che amo. Gennaio e Shameless ormai da cinque inverni. Noi, inseparabili. Lo consiglio, lo spammo, lo impongo come una dittatura forzata: tutti i miei amici lo seguono ormai, perciò seguitelo. E' una delle poche cose che accomuna me e mio fratello, che abbiamo gusti inconciliabili: una volta a settimana, quando non sono a casa, ci sentiamo e facciamo un recap appassionato. Hai visto cos'è successo a Fiona? Hai visto che è ritornato Jimmy? Hai visto cos'altro ha combinato Frank? Così, come fossero amici in comune. Roba di famiglia. Quest'anno Shameless ci ha messi d'accordo a colpi di comicità, vandalismo e parolacce, scoprendosi – al solito – ben pensato e a tratti tenero in modo assurdo. Sarà che gli atti di dolcezza dei bulli sono i più rari e i più sinceri. E che quella Chicago malfamata e criminale ha un senso della famiglia che suscita invidia; nido d'affetti tra spacciatori, prostitute russe, pazze a piede libero, aspiranti senzatetto come i loro papà. Ma qualcosa sta cambiando, sulla scia della chiusa di una quarta serie, ingiustamente ignorata nella stagione dei premi, che ci aveva regalato il meglio. Arrivano gli agenti immobiliari nel quartiere, Fiona ha trovato il posto fisso, Carl fa progressi con la carriera di pusher, Debbie si sogna già mamma e Ian si sogna sano, Lip ha grandi potenzialità e finanze ristrette, Frank – rinato a nuova vita – è la solita vecchia spugna. Emmy Rossum, mostruosa nella scorsa stagione, qui si districa tra triangoli sentimentali e indecisioni. Seduce Dermot Mulroney, mette la testa a posto con il romantico bluesman Steve Kazee e ci ricasca con il fuggiasco Justin Chatwin, che torna in città per la "sua" ragazza e per reclamare un cameo, visto che il suo sedere ormai è parte della storica sigla. Niente di che neanche per Jeremy Allen White, che va a letto con la sexy prof Sasha Alexander e poco più. Gli affiatati Veronica e Kevin vanno in crisi con la nascita delle gemelle, anche se crisi ben più importante è quella tra Ian e Mickey: sono venuti allo scoperto, ma la follia scorre nel sangue dei Gallagher e il bipolarismo di Ian li mette in ginocchio. Sono giovanissimi – e per me la coppia più bella della tivù – e la sceneggiatura, a sorteggio, condanna loro alla tragedia, rendendo il primo instabile e il secondo inerme. Bravissimo è Noel Fisher, con uno dei comprimari più indimenticabili e i momenti intensissimi di una stagione altrimenti fin troppo tranquilla; al massimo Cameron Monaghan, con un ruolo difficile e la problematicità che, negli episodi scorsi, aveva caratterizzato la matura Fiona. A dare un'occhiata al lato selvaggio anche Bojana Novakovic nelle vesti di Bianca, giovane dottoressa in fin di vita che, rinunciando alle cure, fa roulette russe di prive volte accanto al mattatore William H. Macy – sessantacinque anni e non sentirli. Dei più significativi nemmeno l'episodio conclusivo, purtroppo, che manca dell'epicità che un vero finale di stagione meriterebbe: sembra una puntata qualsiasi. Dopo tragedie e sconvolgimenti, dure prove per personaggi e spettatori, Shameless si apre alla freschezza. Da loro l'estate sta finendo, le campanelle stranno per richiamare i ragazzini sui banchi, non è ancora tempo di fingersi politicamente corretti per il Natale. I primi episodi sono spassosi. Un respiro di sollievo, giacché le sorelle modello non vanno in prigione, i pochi innocenti non rischiano la morte, i drammi sono meno drammatici e anche meno accattivanti. I toni si elevano, calano il classico realismo e la cupezza, ma la pecca di questa quinta stagione è che resta troppo lieve, nonostante personaggi in evoluzione e nuovi ingressi. L'interesse non cala, l'intrattenimento è assicurato, ma si farà ricordare - in generale - di meno. Non diventa la solita comedy, quindi niente paura, però osa pochi exploit mentre le svolte si fanno grottesche e le sottotrame numerose; forse anche difficili da gestire in maniera credibile, in un vicino domani. Noi ci fidiamo. (7,5)
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