Sense8Stagione I Serie che spuntavano come funghi nel mio periodo di reclusione forzata. E, tra queste, serie che non immaginavo neanche di avere il bisogno di seguire. Nello specifo, questa qui, scritta – e, per qualche episodio, diretta – dai fratelli Wachowski. Amati e odiati creatori del cult Matrix, da poco reduci dal fiasco Jupiter Ascending, qui cento passi avanti e uno indietro. La Netflix a produrre, storie dentro storie e – all'inizio - l'ombra di quel povero Cloud Atlas tanto messo al vaglio per il quale avevo invece straveduto. Sense8, per leggerezza, piglio autoironico, giusta misura, è senz'altro migliore. Non ha momenti morti. Nella sua fantasiosa coralità, non ha una storia che ti piace e un'altra no. Risulta talmente ben pensato che gli otto personaggi – nati nello stesso giorno, connessi, in pericolo mortale – a turno promettono di diventare i tuoi preferiti. Un giorno preferisci Riley, deejay islandese che sta tornando a casa; un altro, invece, Sun, imprenditrice koreana dai colpi segreti, in una prigione di massima sicurezza per colpe non sue; Nomi, che un tempo si chiamava Michael; Lito, star messicana, che nella vita privata vive un comico mènage a tre; Wolfgang, duro e selvaggio, ai ferri corti con mezza Berlino per un furto di diamanti; Kala, bellissima indiana alle prese con un matrimonio combinato; ancora, Capheus – africano – con un pulmino sgangherato che ha il nome di Van Damme e una propensione per i guai. Personaggi in divenire che, sfidando fusi orari, latitudini e paradossi, a volte vengono a trovarsi nella medesima inquadratura grazie a splendide sequenze d'insieme – è il caso di What's Up che passa al karaoke, di un'orgia impossibilein cui all'unisono si raggiunge il piacere, del ricordo della miracolosa notte delle loro nascite. L'intreccio, a volte, può ricordare i prodotti commerciali di una The CW – ad esempio Heroes, che alle medie adoravo: voi avevate l'album di figurine, sì? - ma si sposa a momenti di pura bellezza – e personalità, e passione - indiscutibilmente autoriali. E Sense8è lì che è fantastico, nella normalità di un giorno qualunque; quando non succede granché. Ti prendi il tempo per conoscerli e comprenderli – e non so raccontarvi, adesso, quanto sia intenso il decimo episodio, ad esempio, in cui gli inseguimenti vanno a nanna par lasciare pace ai due diversi, Nomi e Lito, che in un museo vuoto danno vita a un dialogo mentale in cui parlano delle loro relazioni. Lei che prima era un lui, che poi è diventato una lei, che poi si è innamorato di un'altra lei; lui – sempre stato convinto della propria mascolinità, al contrario – che al primo appuntamento, già cotto, faceva un pompino a quello sconosciuto che parlava d'arte in uno squallido bagno pubblico, eppure non c'era squallore alcuno. A Sense8 credi e subito giureresti di credere nel prossimo, vincendo la tua diffidenza da misantropo; contagiato dall'intensità, sconquassato dall'empatia. C'era il video di questa canzone pop, un pezzo per l'estate della Minogue, mi pare, di cui non ricordo ora come ora neanche il ritornello; alla base, comunque, aveva una gran bella idea. Gli amanti di New York si spogliavano e, in mezzo a strade vuote, rimanevano solo in biancheria intima: si baciavano, si mischiavano, formavano una piramide umana. Un corpo solo. Non si sapeva dove iniziassero e finissero le bocche. Di chi fossero le mani, le braccia, la pelle esposta. Gli uomini e le donne - i bianchi, i neri, i gialli e le incredibili sfumature che stanno a metà, frutto di una splendida mescolanza di razze - condividevano il cuore. Si amavano i maschi con i maschi, le femmine con le femmine, in ogni alternativa possibile, e - sarà che erano tutti così belli e di quella bellezza che non fa spavento, sarà che mi piace pensare che anche allora la tolleranza fosse di casa - avevano l'aspetto che immagino abbia l'armonia. L'ordine, sulla terra, era una forma geometrica tutta nuda e senza vergogna. Pensieri – e immagini – che mi sono tornati in mente anni dopo, quando di quella canzone mi è sfuggito di mente il titolo e, dalla tivù della mia stanza, è arrivato e se ne è andato, in un paio di giorni, l'impensato Sense8: per me, attualmente, serie dell'anno.Il minimo comune multiplo di un grande amore (o otto?), e tutto il caos trova un senso. (9)
Orphan Black
Stagione III
Questo sembra
essere l'anno in cui le serie che seguivo o finiscono o,
puntualmente, mi deludono. Che posso farci? Due anni fa ho conosciuto
una rivelazione di nome Tatiana Maslany – santificatela subito –
e ho consigliato la sua serie
a parte del mondo conosciuto, probabilmente. Orphan Black
era bellissimo, originale, a
tratti divertente: andava recuperato per forza. Già la seconda
stagione, similissima alla prima e con poca voglia di fare, mi
avrebbe lasciato un po' così, appeso all'incertezza più totale, se
non fosse stato per quel colpo di scena finale che, come nella
migliore tradizione degli ultimi episodi, mi aveva lasciato con la
curiosità a mille. Non c'erano solo le “sorelle” del misterioso
Progetto Leda: accanto a quelle donne baciate dalla scienza – una
casalinga disperata, una detective, una hacker, un'ucraina omicida e
via dicendo – c'erano anche, a sorpresa, cloni uomini. Il Progetto
Castor e i suoi spietati assassini dalla stessa faccia: l'altro lato
del medesimo esperimento. Si parte da loro, subdoli e manovrati
dall'alto, e sono tutti Ari Millen: uno che è bravo, ha una faccia
pure interessante, ma vuoi paragonarlo forse al camaleonte – e
uragano - Tatiana? Consideriamo comprimari, e aspiranti villain, che
sanguinano a volontà, ma non hanno il carisma sperato. Consideriamo
che il parlare di fantascienza-fantascienza risulta incomprensibile,
e che il succo della vicenda – clonazioni e compagnia bella –
almeno io non lo seguo affatto bene, quando dovrebbe essere il
fondamento di tutti e dieci gli episodi, da patti. Consideriamo una
parte centrale – con le sestra Sarah
e Helena intrappolata nella base dei cattivi – che non vedevo
davvero l'ora finisse. Cosa resta? Una protagonista straordinaria che
tutto può, e vabbè, e i siparietti comici messi in atto dagli amici
giulivi, dalle massaie che si danno allo spaccio di stupefacenti
causa Breaking Bad,
dai karaoke intonati nei fumosi bar londinesi. Una terza serie,
dunque, che si ricorda più per l'ordinario che per lo straordinario.
Se laboratori e intrighi organizzati da menti superiori non mi hanno
coinvolto a dovere – con Sarah, autentica protagonista, che appare
sottotono e Cosima che, alla Nolan Ross, ci intrattiene con triangoli
in rosa di cui importa poco, nonostante lo splendore delle due
pretendenti al suo cuore -, hanno saputo farlo l'impresa di famiglia
di Alison e Donnie – e quell'ex che spunta dal passato non è forse
il Justin Chatwin di
Shameless? - e gli scleri della pazza Helena che a volte si rivela un
agnellino, a volte un leone, ma è sempre e comunque una forza.
Soprattutto se condivide lo stesso tetto, per un arco di episodi, con
la mia spacciatrice – e madre di famiglia - preferita: a quanto, ci
chiediamo tutti, una sit-com sulle due? (7)
What Lives Inside
miniserie tv
Uno
scrittore amato da generazioni di bambini muore all'improvviso. Al
suo funerale, quel figlio con cui non ha mai avuto un gran rapporto –
lui che è stato padre metaforico di tanti ragazzini, ma non del
sangue del suo sangue. Tra le chiacchiere di circostanza e le
condoglianze non sentite fino in fondo, quel bambino solitario
diventato uomo e, nel laboratorio del genitore, in mezzo a modellini
e bozze, scorge una porta segreta. Quella che porta al mondo
interiore del papà. Sarà realtà o immaginazione? Nel cast, Colin
Hanks – figlio di un padre che non troppo tempo fa è stato
amatissimo come quello del protagonista -, mamma Catherine O'Hara e,
in una comparsata delle sue, il fresco vincitore dell'Oscar per
Whiplash, J.K Simmons.
What Lives Inside –
strano prodotto di cui mi sfugge la definizione: come li chiamate
quattro episodi totali di dieci minuti ciascuno? - è una colorata e
malinconica creatura fatata, che ha qualcosa di Big Fish e
qualcosa di Alice in Wonderland.
Le ispirazioni e l'affetto del Burton migliore, gli effetti speciali
di quello peggiore – nonostante un budget altissimo e un lato
grafico ottimo. Quaranta minuti sono un po' pochi per appassionarcisi
davvero, ma visivamente, questo, è un gioiello che non lascia
indifferenti. Il trionfo dello schermo verde, l'ennesimo, che arriva
a modo suo anche dalle parti del cuore. Per forza di cose, si ferma
prima di appassionare, ma guardato come un esperimento – un inedito
buona la prima – lascia confusi perché è già finito, e come è
possibile?, ma incantati perché raramente sul piccolo schermo del
nostro computer, almeno che non si parlasse di un film piratato, sono
passati sprazzi di luce - e note - tanto suggestivi. (6,5)


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