True Detective Stagione II
Era il ritorno che tutti attendevano, dopo i fasti della scorsa stagione. Quando True Detective – serie antologica, produzione cult – si era imposta come rivelazione dell'anno. Lungometraggio di otto ore, diretto da un Cary Fukunaga che si fa desiderare e che, da allora, tutti portano sul palmo della mano, in alto, aveva protagonisti dai grandi nomi e dai grandi ruoli, sequenze da manuale, ritmi accattivanti uniti a dialoghi che suonavano come un lungo, memorabile aforisma. Recuperato un po' in ritardo, dopo essere stato messo alla prova dalla flemma dilemmatica del pilot, lo avevo venerato, anche se poco tende a piacermi, di solito, ciò che piace a tutti. Ma, da cultore di un cinema di pancia e di testa, impossibile trattenere l'entusiasmo davanti a quel racconto pulp di amicizia tradita, morte e redenzione, con i suoi certosini piani sequenza, i suoi exploit da applauso, la malinconia della senilità. Come non vedere la grandezza in True Detective? Come attendere il secondo capitolo – anche se era un capitolo che raccontava altri crimini, altre vite – e osare ridimensionare le alte aspettative? I paragoni non dovrebbero nascere, ma spontaneamente nascono. Pur sapendo - e questo nuovo ciclo di episodi non smentisce purtroppo il dolente presagio - che andranno a sfavore di una serie che ha punte di diamante non da meno, ma scarso appeal. Cambiano cast e scenari. Siamo in California e l'omicidio di un ricco manager – coinvolto in traffici illeciti, alleanze, scandali sessuali – chiama in azione tre professionisti in cerca di una seconda chance. Velcoro – padre in lotta per l'affidamento di un bambino, possibile frutto di uno stupro; Woodrugh – eroe di guerra che vive con vergogna la propria natura, accusato di molestie da un'aspirante starlette; Bezzerides – donna che fa un lavoro da uomini, le cui inspiegabili avventure di una notte e via potrebbero trovare risposta in un trauma infantile rimosso. Dalla parte della criminalità organizzata, un piccolo boss locale e la sua consorte sempre nell'ombra; maledetti dalla sterilità, in cerca di un erede. Se il loro privato – tra voglia di paternità e innocenza persa – risulta interessante, non può dirsi lo stesso di un mistero complesso e difficile da tenere a bada. Francamente, non sono certo neanche di averlo capito. Il nuovo True Detective ha i consueti otto episodi, ma ha bisogno di una guida – sul web fioccano, infatti, riassunti, schemi, post per afferrare il punto della situazione. C'è dunque qualcosa che non quadra. Come questi intrecci dispersivi, l'indagine inutilmente cavillosa, le mosse di un poliziesco qualsiasi. Il buon Pizzolatto – su cui pesavano troppe aspettative – abbandona le paludi della Louisiana e, trasferendosi sulla costa, fa il verso a un Ellory, tra traffici umani, corruzione, piccole Arcore d'oltreoceano: i confronti lasciano il tempo che trovano e si perdono autorialità, guizzi, momenti impressi nella memoria. E pure i grandi occhi – chiamiamoli così, okay? - di Alexandra Daddario. Farrell è in gamba, bravo come sempre lo trovo ma senza superlativo assoluto, con il ruolo, e i baffi folti, di Miami Vice. Kitsch è bello – ed era anche il momento che le ragazze, assidue spettatrici, si rifacessero un po' gli occhi – ma, come vuole il detto, non balla. La McAdams – sì grintosa e convincente, agguerrita, con la smorfia incazzosa e la fronte increspata – la preferiamo quando è sorridente, romantica, coi mariti che viaggiano nel tempo e la memoria che la abbandona. Sorpresa il malavitoso Vaughn – affiancato da Kelly Reilly, tanto affascinante quanto superflua e sperduta – con l'intenso monologo del secondo episodio, tanta umanità e validi tete-à-tete, seduto a un tavolo, con la star principale. Tenetevi pronti per un finale ad effetto, sospeso tra amarezza e banalità, che colpisce emotivamente protagonisti e spettatori – me compreso -, lasciando spazio alla speranza delle donne e a una storia d'amore in potenza, che per un po' rende la bella Rachel l'eroina romantica a cui tutti vogliamo bene. Dopo un inizio in sordina, ci si risolleva dal quinto episodio in poi, anche se non è comunque abbastanza. Resta la sigla, bellissima. Se avesse avuto un altro titolo, okay: altra storia. Grazie alle buone interpretazioni e ai pochi pregi, non avrebbe mosso critiche e rumori. Ma se avesse avuto un altro titolo davvero, con puntate similmente dispersive e pretestuose, chi lo avrebbe guardato per intero? Il nome True Detective significa attenzioni sicure e, di sicuro, non sentirsi all'altezza. Il resto, questa volta, almeno, è delusione, “tutto chiacchiere e distintivo”. (6)
UnReal
Stagione I
Prendete
quei programmi che tanta gente - anche quella insospettabile, senza macchie -
guarda. Un Uomini e donne, un Temptation's
Island. Avvenenti e giovani pretendenti, uno scapolo d'oro, un
matrimonio in grande nell'episodio conclusivo. Su Everlasting l'amore
è una farsa e Cupido è uno spietato direttore esecutivo che
controlla ogni cosa. Unreal, serie televisiva estiva
apparsa all'improvviso e destinata a essere il probabile guilty
pleasure dell'anno, è il backstage di una fiaba scritta da altri. Si
spengono le telecamere e, lontano dagli occhi degli spettatori,
nascono rivalità, gelosie, tradimenti. Ci viene mostrata, infatti,
l'edizione più imprevedibile e scoppiettante di un reality show
dalla lunga fortuna: sul metaforico trono, un vizioso inglesino con
un'immagine a cui dare nuova credibilità. A contenderselo, una
quarantenne reduce da un divorzio burrascoso; una spigliata
campagnola; una caliente modella di intimo; una raffinata avvocatessa
con una perfetta capigliatura da Lady Diana. Da aggiungere alla
lista, infine, anche la protagonista, Rachel: professionista senza
scrupoli, sopravvissuta a una brutta crisi di nervi, che per lavoro
spinge le pretendenti tra le braccia del playboy della situazione e,
imprevedibilmente, ci finisce lei in primis. Cosa c'è stato prima
della diretta ufficiale? Morti non troppo accidentali, ricatti,
vendette. Unreal, commedia nera di notevole fattura –
tanto da non sembrare un prodotto Lifetime; tanto da essere un
piacere sì, ma poco colpevole – ha una diverentissima componente
trash – un programma come un'agenzia matrimoniale – e un attento
studio di reazioni, meccanismi di causa effetto, colpi di scena che
gli valgono l'etichetta di thriller psicologico. Cinico, sfrontato e
asprigno, già confermato per la seconda stagione, è esteticamente
impeccabile, ha una scrittura intelligente che nessuno si
aspetterebbe e un cast assortito e sexy, composto perlopiù da volti
del piccolo schermo, in cui spiccano Freddie Stroma – biondo
dall'accento regale visto anche nella saga di Harry Potter
– e una Shiri Appleby bravissima, tornata sotto le luci
della ribalda dopo il successo di Roswell, nei tardi anni
novanta. Per chi quando chiedeva “ma come fai a guardare un
programma come quello della De Filippi?” si sentiva dire “è per
un'indagine antropologica, e per le risate involontarie”.
Con Unreal, grossomodo, valgono le stesse regole e
la stessa svergognata scusa. (7+)
Wayward Pines
Stagione I (Cancellato)
Un
incidente automobilistico e Ethan, agente sulle tracce di colleghi
scomparsi, si sveglia in quel di Wayward Pines. Microcosmo dal
perimetro che è severamente vietato oltrepassare, pena la morte, la
città – paragonata senza cognizione di causa alla leggendaria Twin
Peaks – ha leggi proprie e segreti custoditi con il silenzio. Cosa
proteggono gli abitanti? E da chi cercano protezione? Tratta
dall'omonima trilogia di Blake Crouch e annunciata come serie
rivelazione, con la protezione di un tristissimo Shyamalan che si dà
da anni a filmacci e cattivi investimenti, l'ultima produzione Fox è
partita con un pilot accattivante e, puntata dopo puntata, è andata
a morire in un pozzo di infamia. Ti muore sotto gli occhi,
semplicemente, mentre in principio non sa dove andare, poi lo scopre
e, infine, in un quinto appuntamento che è il peggio del peggio,
cerca di spiegare l'inspiegabile con una tirata di quaranta minuti
che mostra la pochezza della storia di Crouch, i limiti di una serie
partita al meglio, la caduta mortale del regista del Sesto
senso. Brutto come brutte sono tante serie passate, brutto
come saranno tante serie future. Ma qui, in maniera imperdonabile. Un
padrino d'eccezione, i paragoni prematuri con Lynch e, nel cast,
nemmeno un attore che suonasse anonimo. Protagonisti, infatti, tutti
presi dal cinema – da Matt Dillon, alla sempre splendida Carla
Gugino; da Shannyn Sossamon agli eccelsi caratteristi Toby Jones e
Melissa Leo; passando, inoltre, per i passeggeri Juliette Lewis
e Terence Howard. Lo stesso spunto del sottovalutato The
Village, le modalità del sonnolento Under the Dome,
un abbozzo di distopia sul modello del pessimo Maze Runner,
un sacrificio finale che ha del ridicolo – altro che commovente –,
uguale a quello di Io sono leggenda. Tra un déjà vu ed
un altro, copiando un po' qui e un po' lì, Wayward Pines è
come un pessimo alunno che, nel tema rubato al compagno di banco
scemo, dimentica di aggiungerci del suo. Ricorda altro; non si
ricorda. (4)
Descendants
Film Tv
L'ultima
riga delle favole, e poi? Cosa è stato delle coppie più amate e,
soprattutto, degli antagonisti che a lungo hanno tramato contro il
lieto fine? Gli eroi delle fiabe – e i loro nemici storici – sono
diventati genitori. I buoni vivono tutti insieme, in un mondo in cui,
a scuola, si insegnano gentilezza e bontà. I cattivi, invece,
esiliati su un'isola deserta, se ne stanno senza incantesimi e wi-fi. Ma, nel frattempo, pensano al colpo di
stato. E così, per un progetto mirato all'integrazione di una
minoranza, la prole delle canaglie più temute va a studiare accanto
ai “figli di”. Un rinnovo generazionale che era già nell'aria;
il ritorno di favole mai alla moda come adesso; i villain più amati
che appaiono appesantiti, stanchi, invecchiati, mentre i loro eredi
sognano la moda, un dalmata da crescere, essere parte di una
squadra. Quando è giusto smettere di seguire le orme dei nostri
genitori e scegliere di essere né buoni, né cattivi, ma semplicemente noi
stessi? Descendants – film prodotto da Disney
Channel, unico canale che rimpiansi, quando i miei decisero di dare
un taglio a Sky – è una commedia musicale in salsa fantasy che ha
caratteristiche che avrei amato, alle medie, e premesse che appaiono disastrose adesso che non si ha l'età. Regia televisiva,
costumi di seconda mano, effetti speciali raffazzonati, stucchevolezza. Un pubblico di soli bambini e genitori. Ma - vuoi la nostalgia canaglia, un lato visivo che è
mediocre quanto in Once Upon a Time, e dunque abbastanza
accettabile, il Kenny Ortega, alla regia, di due miei cult
d'infanzia: Hocus Pocus e High School
Musical – questa storia di seconde opportunità,
accoglienze calorose e unione, condita da canzoni orecchiabili e
sprazzi musical architettati da bravi addetti ai lavori, funziona e
diverte, con tutta la leggerezza e la magia di cui la televisione –
modestissima – è capace. Nel cast di giovani, occhio alla bella
Dove Cameron – con la canzone If Only che non fa
invidia a Let it go, una serenata alla 10
cose che odio di te da parte di un principe pazzo d'amore,
la versione remixata di Stia con noi – e alla meno
giovane Kristen Chenoweth, qui una Malefica autoironica e
vendicativa, meglio della Jolie. Si fa riferimento a un sequel e, sperando non
arrivi tra tanto tempo, vedrò di farmi trovare pronto; con la solita età
un po' sbagliata e la testa da bambino cresciuto quanto basta. (6,5)
