"Suddenly I stop,
but I know it's too late.
I'm lost in a forest
all alone;
the girl was never there,
it's always the same.
I'm running towards nothing
again and again and again."
Gli altissimi alberi della foresta dividevano la nebbia mentre un rumore di battiti echeggiava lento sotto quel cielo di foglie nere. «Dove sei? Dove diavolo sei finito?!» urlava Paul brandendo l’accetta. Si fermò e vide il suo gatto sfrecciare di là di un albero. «Eccoti qui! Brutta bestiaccia, ti ho trovata finalmente! Cos’è?! Vuoi andartene anche tu? No, io t’ammazzo!» riprese la folle corsa fino a perdersi. Sembravano mille alberi tutti uguali e lo sfondo grigio della nebbia a mangiarli. Ogni passo verso quelle fauci era un passo verso la bora; in ogni morso fluttuavano delle ragnatele che ne dimostravano la vecchiaia e il battito di quel cuore si era fatto più forte, assordante. Ad un tratto più nulla: la foresta era sparita di nuovo. Folate di vento gli scombinavano i capelli, lo spingevano da tutte le parti. Chiuse gli occhi, lasciò l’accetta e pianse. L’ansia gli premeva il petto. Il silenzio era interrotto soltanto da quei battiti che ogni momento sembravano avvicinarsi sempre di più, sempre più vicini a lui, distorti, insieme a quel vento gelido, cattivo, lacerante. La carne gli bruciava e le orecchie dolenti ascoltavano quel tam-tam interminabile. Il gatto gli si avvicinò alle gambe e lui, impaurito, si arrese «Tu non vuoi abbandonarmi, tu mi stai portando da lei. Finalmente la rivedrò» ad un tratto una risata carambolò nel buio, una risata sguaiata, senza pietà gli trapanava le orecchie. Una luce rossa si fece strada tra quelle pareti grigie e gli alberi. Uno stormo di pipistrelli gli arrivò addosso. Cadde all’indietro e sprofondò in un abisso nero come la china, tra le urla dei dannati si dimenava, come una topo cercava di scappare da qualche parte, di nascondersi all’occhio vigile. La foresta non esisteva più. «Tu, sgradevole entità, sei l’uomo più silenzioso del mondo ed io ti condanno ad ascoltare tutto ciò che hai taciuto al tuo cuore, tutto ciò che hai sempre spiato da quei luridi vetri. Io ti condanno alla cecità, al fastidioso ronzio che si intratterrà nelle tue orecchie decrepite. Sarò la tua paranoia, il tuo femore rotto, il dolore lancinante di una coltellata tra le costole e poi, per giuoco, per mio sadico, puro divertimento, TI MANGERÒ!» Si svegliò con quelle urla ancora nelle orecchie. Guardò a destra, poi a sinistra, ma il suo sguardo si fermò al centro della stanza. Davanti al letto c’era il suo bel gatto nero, fermo a guardarlo, impalato come una statua. Si fissarono per un paio di minuti, poi il gatto si leccò i baffi e si mosse verso la sua cesta di vimini.
Fuori dalla finestra, la foresta era ancora nascosta sotto la cappa di nebbia che, vista dalla montagna, aveva le sembianze di un cuscino animato. Paul si alzò dal letto, accese una sigaretta e si spostò verso la cesta del gatto. «Che creatura strana che sei, piccolo animale peloso. Sembri pericoloso soltanto quando non ti vedo. Ti nascondi nell’ombra di chi dorme – rise – ma io resterò sempre più alto di te» - il gatto miagolò come a fargli una domanda, ma lui smorzò la risata e si rialzò. Uscì fuori a prendere una boccata d’aria di montagna. Una mano lo prese al collo, fermandolo: «Dunque era così che mi ricordavi?» - disse la voce roca della foresta.
SID