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Purtroppo bisogna dirlo con chiarezza: la banale epopea del Risorgimento che ci insegnano nelle scuole ha cancellato per oltre un secolo e mezzo l’Esercito Meridionale delle Camicie Rosse che consegnò a Vittorio Emanuele II il Regno delle Due Sicilie. Un’armata di ombre agli ordini dei “grandi” Nino Bixio, Giacomo Medici, Giuseppe Avezzana smobilitata nel novembre del 1860, licenziata con qualche mese di misera paga dai funzionari del regio governo di Torino che non voleva immettere nei ranghi delle truppe regolari quella massa di volontari in buona parte mazziniani e democratici provenienti dal Mezzogiorno e dai ceti più umili. Finalmente con la buona volontà di alcuni ricercatori nonostante i pochi mezzi economici a disposizione riemergono oggi dagli abissi della memoria, le gesta di contadini, barbieri, facchini, garzoni, spaccapietre, caffettieri, camerieri, panettieri, operai, pescatori depositati presso l’Archivio di Stato di Torino che custodisce i registri del vecchio ministero della guerra. Da questi documenti si evince il notevole apporto popolare delle genti del Sud alle vicende che condussero all’Unità d’Italia. Addirittura un’intera divisione, comandata dal generale Avezzana, rivoluzionario e patriota piemontese già dai moti liberali del 1821, era composta interamente da meridionali. Si calcola che in tutto erano oltre trenta mila i cafoni impiegati nelle truppe garibaldine tra picciotti siciliani, calabresi, lucani, pugliesi, napoletani, abruzzesi, molisani e disertori dell’esercito di Francesco II. Fra questi spicca il nome di quel Carmine Crocco combattente con Garibaldi al Volturno che diventerà uno dei capi della rivolta meridionale post unitaria che viene inopinatamente identificata col nome di brigantaggio e le cui origini, invece, vanno cercate nel tradimento sabaudo delle aspettative delle popolazioni del Meridione suscitate dai garibaldini. Una popolazione quella meridionale usata (come sempre!!!) strumentalmente da Cavour per i fini di casa Savoia e del costituendo Regno d’Italia con il suo esercito mandato a casa senza nemmeno un ringraziamento con il decreto del 11 novembre 1860. Dopo è tutto un susseguirsi di menzogne e tradimenti con scontri e polemiche veementi alla Camera di Torino dove tra il marzo e l’aprile del 1861 Garibaldi cercò di opporsi al conte di Cavour senza però riuscire a far cambiare idea ai piemontesi sulla struttura dello Stato Unitario. A chi aveva fatto materialmente l’Italia, in quei giorni venne dato il benservito in fretta e senza nemmeno un ringraziamento.
Ma i terroni sino a tutti gli anni Sessanta del Novecento hanno continuato a fare l’Italia.
“Girava in bicicletta, odiava le penne biro e ci obbligava ad usare il calamaio, ma fiutavamo nella sua borsa gonfia di mistero, nel portamento e nella composta discrezione, ispirata più a decoro che a eleganza, l’antropologia tutta meridionale dei Servitori della Cosa Pubblica. Sto parlando di prefetti e questori, magistrati e ufficiali dell’esercito, insegnanti e presidi, diplomatici e funzionari di banca, ferrovieri e medici, che hanno imposto un modello nazionale, la lingua del meridionale de Sanctis, la storiografia del napoletano Croce, i commis con un’idea di Stato rigoroso che dai suoi servitori esigeva zelo, dedizione, efficienza e pulizia. E ogni volta che ripenso alle loro facce familiari mi sembrano come tante diverse foto di una stessa persona: il terrone che ha fatto l’Italia appunto. (…)
Altro che Bertolaso e la cricca, altro che impunità di Stato! Era proprio quel modello di terrone a far sì che la corruzione si fermasse al campo politico, non contaminasse lo Stato e i suoi commis che il vecchio Sud fin quando ne ha avuto l’opportunità, ha saputo formare e selezionare per l’apparato nazionale. Magari ne avessimo ancora nelle roccheforti della nostra burocrazia, negli organi amministrativi e di controllo. Purtroppo di quel modello si è perduto il seme e in pochi ne serbiamo un’accorata nostalgia. (…)
Ecco: è stata raccontata la storia dei Crispi e dei San Giuliano, degli emigrati che diventano operai della Fiat, dei soldati del nord e del sud che nelle trincee della Prima guerra mondiale muoiono italiani, manca però la storia dei prefetti e dei maestri e quella dei ferrovieri che rappresentano non solo il meglio dell’Italia terrorizzata ma anche della sinistra: l’eroe di Vittorini, il duro di Pietro Germi, il proletario terribile ma silenzioso, sporco ma morale, che portava il treno in stazione nonostante il governo fosse ladro, la borghesia feroce e ridicola, la tecnologia inesistente, il rischio personale enorme, la paga bassissima”.
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