Attenzione!
Questo articolo potrebbe rivelarsi eccessivamente lungo e troppo personale.
14/07/2013: suonano a Rock in Roma, a Capannelle, gli Smashing Pumpkins. Ad aprire il concerto Mr. Mark Lanegan. Come possa uno come Mark Lanegan essere uno che suona quando ancora c’è la luce del sole aprendo concerti altrui è uno sconcertante mistero ed una delle desolanti anomalie che, senza controllare, sono certo possano sussitere solo in Italia. Ma tant’è, nella stessa serata noi beceri ma fortunati italiani abbiamo l’occasione di vedere sia Mark Lanegan che gli Smashing Pumpkins. Amen.
Comunque sia, qui servono un po’ di premesse per dare il giusto contesto a questo articolo e farvi capire di cosa effettivamente stiamo parlando. Chi scrive nella sua adolescenza è stato fan sfegatato, stupido, degli Smashing Pumpkins. A partire dal 1994, sedicenne, ascoltavo ossessivamente Siamese Dream (ricordo che promisi a me stesso che avrei ascoltato almeno un po’ di Siamese Dream ogni giorno della mia vita, per sempre), acquistavo immediatamente senza badare al prezzo qualsiasi cosa pubblicasse Corgan o avesse sopra il marchio SP: album, singoli, vhs, cofanetti, bootleg, compilations, vinili anche se non avevo il piatto, la colonna sonora di Batman & Robin, libri, t-shirts, stickers, spillette. A Londra in gita scolastica setacciai Virgin Store et similia a caccia di chicche e rarità, tornai con un orrido cd con un’intervista in inglese.
Quello che mancava per soddisfare la mia esuberante passione adolescenziale era lo spettacolo live, il concertone. Obiettivo non facile da raggiungere per un teenager barese: da quello che sapevo gli SP avevano suonato una volta in Emilia prima che li conoscessi (tipo ad una festa dell’Unità, se non ricordo male) e poi nulla fino all’aprile 1996, Palatrussardi di Milano. Non ancora diciottenne ero pronto al grande viaggio in treno ma non riuscì a trovare un compagno di viaggio; mandarmi da solo in treno da Bari a Milano a 17 anni era troppo per i miei genitori: occasione persa. Finalmente il mio sogno di vedere Billy Corgan e gli Smashing Pumpkins dal vivo si concretizzò il 7 giugno del 1998 alla scalinata dell’EUR a Roma (se volete sentirlo sta qui). Per vicessitudini che non ricordo non ero riuscito a procurarmi il biglietto, dovetti comprarlo da un bagarino a cifre astronomiche. Ovviamente ne valse la pena: a 20 anni, il viaggio con amici vecchi e nuovi, il concerto in una location fuori dal comune, il mio gruppo preferito (benché senza il prodigioso batterista Jimmy Chamberlin) in un momento di grazia, il tour di un disco che avevo amato visceralmente (Adore), la notte passata per strada. Un pietra miliare della mia crescita.
Adesso siamo nel 2013, da quel 1998 sono passati 15 anni e gli Smashing Pumpkins nel frattempo si sono sciolti ed erano un po’ finiti nell’oblio; poi Billy Corgan, dopo vari progetti fallimentari e momenti in cui sembrava avesse davvero perso completamente la testa, ha ricostituito la band e tirato fuori un album inaccettabile (Zeitgeist), il fidato batterista Jimmy Chamberlin lo ha abbandonato, ha trovato un nuovo batterista (Mike Byrne) e poi riformato la band selezionando i membri con pubblica audizione, poi ha sbroccato con un disco pubblicato gratuitamente solo su Internet un pezzo alla volta, poi finalmente si è rimesso in tour suonando scorpacciate di pezzi dei bei vecchi tempi e tutto si è risolto. Infine nel 2012 ha pubblicato Oceania che, diciamoci la verità, non è questo granché ma non è neanche una cosa imbarazzante e dimostra che Billy si è finalmente rimesso in carreggiata per fare quello che ha sempre voluto fare: scrivere canzoni, pubblicare dischi, girare il mondo suonando di fronte a grandi platee osannanti. Dategli torto.
Dal canto mio invece in questi 15 anni sono successe un sacco di cose, oltre ad aver rivisto gli Smashing Pumpkins in altre due occasioni: sono cresciuto. L’appassionato romantico teenager superfan di allora è diventato un trentacinquenne lavoratore e padre di famiglia e durante il tragitto ha avuto modo di scoprire ed approfondire un sacco di altra musica, ampiamente coadiuvato dalla rivoluzione digitale. Tra le tante cose scoperte e approfondite spicca la figura di un cantante che viene dalla stessa era e dalla stessa scena musicale di Billy Corgan ma la cui attitudine (e la cui voce) è agli antipodi di quella del leader degli Smashing Pumpkins. Sto parlando di Mark Lanegan. Lanegan è un mito, già ve ne ho parlato. Ma quando dico ‘mito’ non lo intendo in senso gergale, proprio nel senso che per me è una sorta di figura mitologica, una leggenda, la summa di quanto di meglio la musica rock sia riuscita a produrre negli ultimi 20 anni. Lanegan è tra i padri della scena di Seattle con gli Screaming Trees già negli anni ’80, amico fraterno e partner musicale di chiunque da Kurt Cobain a Greg Dulli, da Layne Staley a Josh Homme, è un filologo del blues, del folk, del garage, del rock and roll. E poi possiede una delle voci più profonde e magnetiche che potrete mai ascoltare. Se Billy Corgan è un hall of famer del gigioneggiamento sul palco, del cazzeggiare con la chitarra e stravolgere i pezzi, dilatarli, masticarli e risputarli, strillare, sorprendere e sfidare i fans ecc, Lanegan invece viene fuori e canta. Basta, niente pose, niente divagazioni: solo lui, la band, la musica e la sua voce da un altro mondo, freddo, immobile, profondo, sincero. La rockstar e il bluesman.
Crescendo ho imparato ad amare l’attitudine di Lanegan e a diffidare di quella di Corgan, così come diffido di appariscenti imbonitori mentre ho una predilezione per i tipi burberi e taciturni. E per un periodo ho avuto un vero e proprio rifiuto per la musica di Billy Corgan che disperatamente cercava di ritagliarsi una presenza nel panorama musicale prima con gli Zwan, poi col suo disco solista The Future Embrace, poi con Zeitgeist e l’altra robaccia che pubblicava infangando il buon nome degli Smashing Pumpkins e la mia adolescenza. Ero deluso, tradito.
Poi nel novembre 2011 sono venuti a suonare in Italia, ho visto la setlist e mi sono detto che, cavolo, sarebbe stato fantastico essere ancora una volta sotto quel palco mentre gli Smashing Pumpkins suonano Cherub Rock o Zero. E poi è uscito Oceania, l’ho ascoltato timoroso e mi sono detto che, al diavolo, è vero che Billy dev’essere certamente stato una carogna con Jimmy Chamberlin, James Iha e D’Arcy, è vero che nessuno di quei pezzi di Oceania sarebbe neanche stato una b-side negli anni ’90, è vero che Corgan sta facendo tutto questo per i soldi e la celebrità, però cavolo, se lo è guadagnato. In fondo non è forse stato lui a scrivere e suonare Gish, Siamese Dream, Mellon Collie and the Infinite Sadness, Adore, Machina? Billy Corgan è uno dei più grandi musicisti rock della sua generazione. Si merita tutto, anche se l’ispirazione che con lui era stata così generosa (quanti pezzi ha pubblicato tra il ’95 e il ’96, tra Mellon Collie e The Aeroplane Flies High? 60? Di più?) lo ha ormai abbandonato.
E dopo questo brevissimo preambolo, se state ancora leggendo, arriviamo a bomba al 14 luglio 2013, Smashing Pumpkins + Mark Lanegan Band live a Capannelle, a 10 minuti da casa. Non potevo mancare. Arrivo al concerto trafelatissimo nel mezzo di mille cose da fare (fatemi gli auguri, tra una settimana nasce il mio secondo figlio) senza aver pensato a nulla tranne che recuperare nel fondo di una scatola la vecchia maglietta che avevo 15 anni fa alla scalinata dell’EUR. Arrivo a Capannelle in perfetto orario, attraverso l’impressionante corridoio di stands e sponsors e arrivo davanti al palco. Tanta gente, quasi tutti over 30 naturalmente, eccetto qualche under 10 figlio di fans di vecchia data che si aggira sereno tra la folla. Bella atmosfera. Per primi, per farci ingannare un po’ l’attesa, escono i californiani Beware of Darkness di cui non so nulla ma che si fanno ascoltare volentieri nella loro mezz’oretta di rock alternativo dal sapore anni ’60, non privi di una certa personalità.
Dopo di loro, quando luce in cielo ancora ce n’è tanta, arriva Mark Lanegan con la sua band. Sono in posizione pressoché perfetta, centrale a 10 metri dal palco. La setlist di Lanegan è asciutta e favolosa come da programma: si inzia con la spettacolare The Gravedigger’s Song e si va avanti con pezzi fantastici vecchi e nuovi come I hit the City, One Way Street, Metanphetamine Blues, la meravigliosa Harbourview Hospital, la cover dei Leaving Trains Creepin Coastline of Lights e l’immancabile pezzo degli Screaming Trees, che questa volta è Black Rose Way dal disco ‘fantasma’ Last Words. Dopo mezz’ora o poco più Mark e la sua band lasciano il palco: nessun bis, nessuna concessione al pubblico, come nel suo stile. Solo una breve frase tipo “lasciamo il palco agli straordinari Smashing Pumpkins” o qualcosa del genere. Sembra ironico, forse lo è, forse no. Ciao Mark, ci rivedremo e non vedo l’ora di ascoltare a settembre Imitations.
Il sole è tramontato, ancora una mezz’ora di attesa, e finalmente Billy Corgan e gli Smashing Pumpkins escono sul palco a fare i conti con la mia adolescenza. Il concerto si apre nello stesso modo in cui si apre Oceania: Quasar e Panopticon. La prima è buona, adeguata per iniziare a scaldare il pubblico, sulla seconda non mi pronuncio. I ragazzi suonano bene comunque: il batterista Mike Byrne è potente come dev’essere un batterista degli SP, Nicole Fiornentino e Jeff Schroeder non fanno rimpiangere di certo le loro controparti D’Arcy e James Iha, almeno dal punto di vista tecnico. Il terzo pezzo è Starz da Zeitgeist e su questo invece mi pronuncio: orribile e venuto anche maluccio. Qua va a finire male, penso. Dopo questo preoccupante inizio arriva Rocket a rinfrancarmi un po’, anche se il pubblico rimane ancora troppo immobile per i miei gusti; dai Billy, “the moon is out the stars invite”, iniziamo ‘sto concerto! E invece nulla, dopo Rocket ancora non si decolla, Corgan si imbarca in una prescindibilissima versione di Space Oddity di David Bowie; Billy, con la discografia che hai a disposizione Bowie francamente potevi lasciarlo in pace: Pumpkin Oddity. Il pubblico sembra apprezzare però, io invece, dopo cinque pezzi, comincio a sentirmi un po’ frustrato. Per fortuna arriva X.Y.U., uno dei capitoli più tirati della discografia degli SP e mio vecchio pallino. In più il pubblico inizia a muoversi: mi butto nel pogo e finalmente posso sfogare la mia insoddisfazione (e arrivare sotto il palco). “And in the eyes of the jackal I say KA-BOOM!”. La verità è che sotto il palco si sente malissimo e Corgan per il momento pare che si stia davvero risparmiando la voce, ma almeno mi sto divertendo nel gruppetto di pogatori.
Ormai lo spettacolo è entrato nel vivo e arrivano momenti più intensi con Disarm e Tonight, Tonight. I pezzi sono quelli che sono quindi arrivano, non posso negarlo, ma la delusione è tanta. Forse Billy non le sente più come una volta, forse è stanco di cantarle da quasi 20 anni, ma le tira davvero via senza passione. Disarm la suonano persino con la base di archi registrata. Per me è davvero un momento di grossa malinconia e i testi dei due brani contribuiscono a rendere più profonda la mia riflessione su quanti anni siano passati e quanto siamo cambiati tutti quanti. “I used to be a little boy”, “You can never ever leave without leaving a piece of youth – We’re not the same, we’re different tonight”.
Ho l’occasione di metabolizzare il mio momento epifanico in cui rifletto sui bei tempi andati e su cosa oggi, 15 anni dopo, siamo diventati io, Billy Corgan e gli Smashing Pumpkins perché arrivano altri due trascurabili brani tratti da Oceania e perché Corgan pensa bene di fermare il concerto per buoni dieci minuti passati a chiacchierare mettendo in imbarazzo i ragazzi della band, raccontando delle sue origini italiane (salta fuori che ha un quarto di sangue siciliano), la cognata italiana, i nipotini rumorosi, gli italiani che gesticolano, lui che ama l’Italia e la cucina italiana ecc. Ovviamente il pubblico è in visibilio mentre la mia crisi interiore si infittisce. Mi sfogo un po’ su twitter.
Should we crucify the insincere tonight? #SmashingPumpkins #rockinroma
— tesori sommersi (@AtlantideZine) July 14, 2013
Damnit, sono passati 20 anni. Sono passati per me, sono passati per Billy, sono passati per tutti. #SmashingPumpkins #rockinroma
— Massimo Basile (@pufrock) July 14, 2013
Adesso nn è più un concerto, Billy si da al cabaret. #SmashingPumpkins #RockinRoma
— tesori sommersi (@AtlantideZine) July 14, 2013
Per fortuna il concerto riparte e arriva un brano che mi riconcilia un po’ con Billy Corgan: Thirty-Tree. Speak to me in a language I can hear Billy, you can make it last forever. Sarà che la chiacchierata lo ha caricato ma Corgan sembra cominciare a dare qualcosa di più dal punto di vista di energia ed intensità e poi, con due pezzi come Ava Adore e Bullet With Butterfly Wings il pogo diventa sostenuto. Ora si comincia a ragionare ragazzi: eccoli qui, sul palco ci sono gli Smashing Pumpkins! Arriva un’altra doppietta da Oceania, One Diamond, One Heart e Pale Horse, due pezzi orecchiabili senza infamia e senza lode che però questa volta accolgo con benevolenza perché fermano un attimo il pubblico: grondiamo sudore. La pausa è gradita anche perché ci aspetta una chiusura da paura con Today, Zero, Stand Inside Your Love e una United States da Zeitgeist che non sarà una grande canzone ma Billy la suona con passione, forse quella suonata meglio in tutta la serata. Ormai tutti i muri sono caduti, sono bastate una manciata di canzoni suonate con passione e posso dirmi ufficialmente riconciliato con Billy Corgan e la mia adolescenza.
Ma il meglio deve ancora venire. Il primo bis è clamoroso, ritorno alle origini con i primi tre meravigliosi brani di Gish: I am one, Siva e Rhinoceros. Sotto il palco siamo in visibilio; in particolare Siva ci manda in estasi, con la parte psichedelica virata a Breathe dei Pink Floyd. Il mio appagamento ormai è totale. La band lascia di nuovo il palco, un secondo bis è nell’aria ma io sono a pezzi: dopo un paio d’ore di pogo la mia preziosa t-shirt è fradicia e le gambe mi reggono a stento. Mi allontano 20/30 metri dal palco e un po’ me ne pento perché gli Smashing Pumpkins rientrano con Immigrant Song dei Led Zeppelin (e con questa sono ben tre cover, tutte dagli anni ’70 inglesi) e chiudono con una fantastica Cherub Rock, fresca, veloce e potente.
Se devo fare un bilancio sulla setlist dico che 6 pezzi da Oceania più 2 da Zeitgeist sono davvero troppi, specie se pensiamo che Adore e Machina hanno avuto solo un brano ciascuno; la stessa Space Oddity poteva essere risparmiata mentre non sarebbe stato male inserire qualche pezzo soft come To Sheila o Try Try Try. Ma in fondo tutto è bene quello che finisce bene: quasi due ore e mezza di concerto in cui, nell’ultima ora, Corgan è riuscito prima a recuperami e alla fine a riconquistami completamente. Chissà, forse tra 15 anni tornerò a vedere un concerto degli Smashing Pumpkins, magari con i miei figli adolescenti.