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I vecchi e i giovani – Luigi Pirandello (estratto)

Creato il 15 novembre 2013 da Maxscorda @MaxScorda

15 novembre 2013 Lascia un commento

Il cav. Cao, a questo punto, tornò a scuotersi come per un brivido alla schiena. Da alcuni giorni era veramente sbigottito della gravità e della tristezza del momento. Tutte le sere, tutte le mattine, i rivenditori di giornali vociavano per le vie di Roma il nome di questo o di quel deputato al Parlamento nazionale, accompagnandolo con lo squarciato bando ora di una truffa ora di uno scrocco a danno di questa o di quella banca. In certi momenti climaterici, ogni uomo cosciente che sdegni di mettersi con gli altri a branco, che fa? si raccoglie; pòndera; assume secondo i proprii convincimenti una parte, e la sostiene. Così aveva fatto il cav. Cao. Aveva assunto la parte dell’indignato e la sosteneva. Non poteva tuttavia negare a se stesso, che godeva in fondo dello scandalo enorme. Ne godeva sopra tutto perché, investito bene della sua parte, trovava in sé in quei giorni una facilità di parola che quasi lo inebriava, certe frasi che gli parevano d’una efficacia meravigliosa e lo riempivano di stupore e d’ammirazione. Ma sì, ma sì: dai cieli d’Italia, in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s’appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto, almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali.
Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della Città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia. Sotto il cielo cinereo, nell’aria densa e fumicosa, mentre come scialbe lune all’umida tetra luce crepuscolare si accendevano ronzando le lampade elettriche, e nell’agitazione degli ombrelli, tra l’incessante spruzzolìo di un’acquerugiola lenta, la folla spiaccicava tutt’intorno, il cav. Cao vedeva in quei giorni ogni piazza diventare una gogna; esecutore, ogni giornalajo cretoso, che brandiva come un’arma il sudicio foglio sfognato dalle officine del ricatto, e vomitava oscenamente le più laide accuse. E nessuna guardia s’attentava a turargli la bocca! Ma già, più oscenamente i fatti stessi urlavano da sé. Uomo d’ordine, il cav. Cao avrebbe voluto difendere a ogni costo il Governo contro la denunzia delle vergognose complicità tra i Ministeri e le Banche e la Borsa attraverso le gazzette e il Parlamento. Non voleva credere che le banche avessero largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti; e che, favore per favore, il Governo avesse proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato.

Ma non poteva negare che fosse stato aperto il credito a certi uomini politici carezzati, che in Parlamento e per mezzo della stampa avevano combattuto a profitto delle banche falsarie, tradendo la buona fede del paese; e che questi gaudenti avessero voluto occultare ciò che da tempo si sapeva o si poteva sapere; e che, ora che le colpe avventavano, si volesse percuotere, ma colla speranza che la percossa ai più deboli salvasse i più forti. Certo, lo sdegno del paese nel veder così bruttati di fango alcuni uomini pubblici che nei begli anni dell’eroico riscatto avevano prestato il braccio alla patria, si rivoltava acerrimo, adesso, anche contro la gloria della Rivoluzione, scopriva fango pur lì e il cav. Cao si sentiva propriamente sanguinare il cuore. Era la bancarotta del patriottismo, perdio! E fremeva sotto certi nembi d’ingiurie che s’avventavano in quei giorni da tutta Italia contro Roma, rappresentata come una putrida carogna. In un giornale di Napoli aveva letto che tutte le forze s’erano infiacchite al contatto del Cadavere immane; sbolliti gli entusiasmi; e tutte le virtù corrotte. Meglio, meglio quand’essa viveva d’indulgenze e di giubilei, affittando camere ai pellegrini, vendendo corone e immagini benedette ai divoti!
Ne fremeva il cav. Cao, perché i clericali, naturalmente, ne tripudiavano. Accompagnando talvolta Sua Eccellenza a Montecitorio, vedeva per i corridoi e le sale tutti i deputati, giovani e vecchi, novellini e anziani, amici o avversarii del Ministero, come avvolti in una nebbia di diffidenza e di sospetto. Gli pareva che tutti si sentissero spiati, scrutati; che alcuni ridessero per ostentazione, e altri, costernati del colore del loro volto, fingessero di sprofondarsi con tutto il capo in letture assorbenti. Per certuni, non ostante il freddo della stagione, i caloriferi erano mal regolati: troppo caldo! troppo caldo! Chi sa in quante coscienze era il terrore che da un momento all’altro gli occhi d’un giudice istruttore penetrassero in esse a indagare, a frugare, armati di crudelissime lenti. Al cav. Cao era sembrato, il giorno avanti, che alcuni deputati, i quali discutevano accalorati in una sala, avessero troncato a un tratto la discussione vedendo passare Sua Eccellenza D’Atri. S’era fermato un po’ a guardare, accigliato, e da uno di quei deputati, che aveva subito voltato le spalle, aveva sentito ripetere chiaramente più volte, sottovoce ma con accento vibrato e impeto di sdegno, il nome di Corrado Selmi che in quei giorni correva sulla bocca di tutti. Il cav. Cao sapeva bene che nessuno avrebbe osato mettere in dubbio l’illibatezza di Francesco D’Atri; ma poteva darsi che, per via della moglie, fosse coinvolto anche lui nella rovina del Selmi che pareva ormai a tutti irreparabile.

Eppure, eccolo lì: passeggiando per lo scrittojo e non ricordandosi più evidentemente né di chi stava ad aspettarlo né dell’esposizione finanziaria, Sua Eccellenza pareva soltanto impensierito d’un pianto infantile angoscioso che, nel silenzio della casa, arrivava fin lì, da una camera remota, non ostanti gli usci chiusi. Già una volta si era recato di là a vedere che cosa avesse la figliuola. Il cav. Cao non seppe frenar più oltre la stizza – (perché, santo Dio, tutta Roma sapeva che quella bambina… quella bambina…) – si alzò come sospinto da una susta, soffiando per le nari uno sbuffo.

Sua Eccellenza si fermò e si volse a guardarlo. Subito il cav. Cao contrasse la faccia, come per un fitto spasimo improvviso, e disse, sorridendo e stropicciandosi con una mano la gamba:
- Crampo, eccellenza…
- Già… lei aspettava… Scusi tanto, cavaliere. M’ero distratto… Basta per questa sera, eh? Lei sarà stanco; io non mi sento disposto. Saranno le undici, è vero?
Caldo! troppo caldo! Chi sa in quante coscienze era il terrore che da un momento all’altro gli occhi d’un giudice istruttore penetrassero in esse a indagare, a frugare, armati di crudelissime lenti. Al cav. Cao era sembrato, il giorno avanti, che alcuni deputati, i quali discutevano accalorati in una sala, avessero troncato a un tratto la discussione vedendo passare Sua Eccellenza D’Atri. S’era fermato un po’ a guardare, accigliato, e da uno di quei deputati, che aveva subito voltato le spalle, aveva sentito ripetere chiaramente più volte, sottovoce ma con accento vibrato e impeto di sdegno, il nome di Corrado Selmi che in quei giorni correva sulla bocca di tutti. Il cav. Cao sapeva bene che nessuno avrebbe osato mettere in dubbio l’illibatezza di Francesco D’Atri; ma poteva darsi che, per via della moglie, fosse coinvolto anche lui nella rovina del Selmi che pareva ormai a tutti irreparabile.

Eppure, eccolo lì: passeggiando per lo scrittojo e non ricordandosi più evidentemente né di chi stava ad aspettarlo né dell’esposizione finanziaria, Sua Eccellenza pareva soltanto impensierito d’un pianto infantile angoscioso che, nel silenzio della casa, arrivava fin lì, da una camera remota, non ostanti gli usci chiusi. Già una volta si era recato di là a vedere che cosa avesse la figliuola. Il cav. Cao non seppe frenar più oltre la stizza – (perché, santo Dio, tutta Roma sapeva che quella bambina… quella bambina…) – si alzò come sospinto da una susta, soffiando per le nari uno sbuffo.

Sua Eccellenza si fermò e si volse a guardarlo. Subito il cav. Cao contrasse la faccia, come per un fitto spasimo improvviso, e disse, sorridendo e stropicciandosi con una mano la gamba:
- Crampo, eccellenza…
- Già… lei aspettava… Scusi tanto, cavaliere. M’ero distratto… Basta per questa sera, eh? Lei sarà stanco; io non mi sento disposto. Saranno le undici, è vero?
- Mezzanotte, eccellenza! Ecco qua: le dodici e dieci…
- Ah sì? E… e questo teatro, dunque, quando finisce?
- Che teatro, eccellenza?
- Ma, non so; il Costanzi, credo. Dico per… per quella bambina… Sente come strilla? Non si vuol quietare. Forse, se ci fosse la mamma…
- Vuole che passi dal Costanzi, ad avvertire?
- No, no, grazie… Tanto, adesso, poco potrà tardare. Piuttosto, guardi: avrei bisogno urgente di parlare con l’Auriti.
- Col cav. Giulio?
- Sì. E con mia moglie. Può darsi che non venga su alla fine del teatro. Mi farebbe un gran piacere, se lo avvertisse.
- Di venir su? Vado subito, eccellenza.
- Grazie. Buona notte, cavaliere. A domani.
Il cav. Cao s’inchinò profondamente, tirando per il naso aria aria aria; appena varcata la soglia, la buttò fuori con un versaccio di rabbia, che mutò subito però in un sorriso grazioso alla vista del cameriere in livrea che gli si faceva incontro.


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