Da Solone a Nietzsche: un libro curato da Maria Bettetini e Stefano Poggi racconta i viaggi (non solo della mente) dei grandi filosofi del passato
I filosofi vivono nell’ozio, in quella condizione appartata dedita all’attività intellettuale che Seneca, da buon saggio stoico, elevava a valore supremo. Non viaggiano. Errano solo con il pensiero concedendosi al massimo, come Bonaventura da Bagnoregio, un Itinerarium mentis in Deum. E il più delle volte li si immagina (con la barba, ma non è detto) rinchiusi in biblioteche tra polverosi manoscritti, come certi monaci medievali – chi non si ricorda i monaci del Nome della rosa?
Ora, non c’è niente di più falso di queste affermazioni. È vero però che i filosofi hanno bisogno di tempo libero da dedicare alla riflessione, perché essa richiede tranquillità d’animo e, appunto, di tempo: nel Teeteto Platone chiama questa condizione “scholé” e la contrappone a quella dei retori, tutti impegnati nelle dispute politiche e giudiziarie, perciò “schiavi” e non “padroni” del tempo. Ma il diverso rapporto con la dimensione temporale non costituisce l’unico discrimine tra i due stili di vita (“tropoi tou biou”) perché i filosofi, ridicoli ai più in quanto estranei alle contingenze della città, soggiornano sì in essa dal punto di vista del corpo, ma rivolgono il loro pensiero alla totalità della realtà volando “nelle profondità della terra” e “al di là del cielo”. Per questo devono “assimilarsi a dio per quanto possibile”.
Detto questo, non è vero che i filosofi vivono ritirati dal mondo. Anzi, moltissimi sono stati i pensatori che nel corso dei secoli hanno freneticamente viaggiato, spostandosi continuamente da un posto all’altro – e magari questo ha aperto loro orizzonti aiutandoli, forse di più che stando seduti a trovare la propria ispirazione, a risolvere problemi filosofici. Ciò non toglie che ci siano stati filosofi che non si siano spostati, o grandi scrittori che hanno narrato avventurosi racconti abbandonando la loro scrivania solo per andare in bagno – uno su tutti, Salgari, che ha inventato le sue storie viaggiando sulle carte geografiche, oltre che con la fantasia.
Ma sono rari, come mostra un libro – pubblicato nel 2010 e curato da Maria Bettetini e Stefano Poggi – che raccoglie i contributi di alcuni studiosi italiani dedicati appunto ai Viaggi dei filosofi (Raffaello Cortina). I motivi di queste peregrinazioni sono vari: “i filosofi hanno viaggiato per fuggire dai persecutori, ma anche per trovare nuovi allievi; per guidare i governanti di uno Stato e per pura curiosità; per cercare sapienti più sapienti di loro e per affrontare un avversario. Spesso semplicemente per guadagnare meglio e di più, perché la filosofia, si sa, paga molto raramente e abbastanza poco”.
Lungo il cammino – in questa appassionata Filosofia del viaggio per citare un volume di Franco Riva – si incontrano prima i pensatori antichi: Solone, che viaggia ben dieci anni per studiare i costumi e le istituzioni di altri popoli; e soprattutto Platone, di cui celebri sono le tre escursioni a Siracusa finalizzate a far di Dionisio, il tiranno della città, un filosofo. Ma, come tutti sappiamo, l’impresa si rivelerà un fallimento – Dionisio lo costringe a ritornare in patria e suo figlio Dionisio II lo venderà addirittura come schiavo – e la vicenda platonica verrà presa ad emblema del rapporto (ostile) tra politica e filosofia. Infatti, il meteco Aristotele, straniero ad Atene (quindi privo dei diritti politici) e spaventato dalla condanna a morte di Socrate, sarà costretto a rinunciare al ruolo attivo del filosofo nella vita politica delle “poleis”, e fuggirà a Calcide, dove morirà. Il che non significa il venir meno di un intento pedagogico che Aristotele esercita con Alessandro Magno e che Seneca non esiterà, almeno in un primo momento, a praticare su Nerone: il resto, come sappiamo tutti, è storia nota.Se proseguiamo il viaggio incontriamo Agostino, di Ippona perché qui viene fatto vescovo e qui morirà durante l’assedio dei Vandali, ma in realtà originario di Tagaste. Dopo aver completato gli studi a Cartagine, si sposterà in Italia, prima a Roma e poi a Milano, dove inizia a seguire le prediche di Ambrogio e dove soprattutto – deluso dal Manicheismo e dallo Scetticismo degli Accademici – incontra la filosofia neoplatonica che gli sembra la più vicina al Cristianesimo. Intanto, nel 386, si converte e, prima di ricevere il battesimo dal vescovo di Milano, si ritira per qualche tempo a Cassiciaco (l’attuale Cassago Brianza) insieme alla madre Monica, al figlio Adeodato e ad alcuni amici con cui dà vita ai suoi dialoghi filosofici.
Agostino viaggia, e tanto. Ritorna in Africa più volte girandola in lungo e in largo. Ma forse viaggia di meno di Anselmo d’Aosta, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, un altro grande del Medioevo, vissuto ben otto secoli dopo di lui, che in trent’anni percorre qualcosa come 15.000 chilometri. Beh, Tommaso è Tommaso: incarna gran parte del pensiero medievale (anche se non va dimenticato il forte influsso della filosofia araba), è l’esponente della Scolastica, scrive una Summa in cui compendia tutto il sapere filosofico e teologico medievale, la cui influenza sarà incalcolabile. Tommaso parte dall’Italia: nato a Roccasecca tra il 1224 e il 1225, va come oblato a Montecassino, e poi studia a Napoli, dove nel 1244 veste l’abito domenicano. La famiglia, essendo il figlio più piccolo, vuole che prosegua la carriera ecclesiastica, tanto che quando Tommaso parte per Roma e Bologna con il maestro dell’Ordine Giovanni il Teutonico i fratelli lo intercettano organizzando un rapimento per riportarlo a casa. Ma alla fine rispetterà le sue scelte e lo lasceranno andare a Parigi, dove Tommaso completa i suoi studi con Alberto Magno, grande erudito, che lo porta con sé come collaboratore a Colonia. Ritornerà a Parigi (come baccelliere e poi come maestro) e a Napoli (dove fonda un nuovo “studium”) varie volte. Tra gennaio e febbraio del 1274 si mette in viaggio per il Concilio di Lione: Tommaso sta già poco bene, in più durante il viaggio sbatte la testa contro il ramo di un albero; non va più a Montecassino, dove alcuni monaci lo avevano chiamato per spiegare un passo di Gregorio Magno, preferendo fermarsi nel castello di Maenza dalla nipote Francesca. Inizia a perdere l’appetito – a questo punto non è chiaro se chiede di andare direttamente a Fossanova o se cerca di ritornare a Roma, arrestandosi nell’abbazia per riprendere le forze – ma esprime un ultimo desiderio: prima di morire vorrebbe mangiare ancora una volta delle aringhe fresche, che il medico che lo segue riesce faticosamente a procurargli. Non sappiamo se alla fine il “pinguissimus” Tommaso le mangerà (ci sono due versioni diverse a riguardo); fatto sta che morirà pochi giorni dopo, alle prime ore del mattino del 7 marzo.
Il volume fa poi sosta in Cina raccontando la straordinaria avventura di Matteo Ricci e, dopo essere ritornato in Europa con Leibniz, si sposta a Parigi, continuando con i viaggi degli Illuministi. Termina però con un filosofo che per l’influenza che ha avuto sul pensiero contemporaneo non ha nulla da invidiare a Tommaso d’Aquino: Nietzsche (raccontato da Maurizio Ferraris), che a Torino nei primi giorni del 1889 impazzisce; vuole diventare famoso e dice di essere Dioniso, Alessandro Magno, Cristo e, insomma, “tutti i nomi della storia”. Poi per non farsi mancare nulla, tra una visita e l’altra al Caffè Fiorio, bacia un cavallo. E ancora oggi, in Via Carlo Alberto 6, è possibile vedere una targa ben visibile che lo raffigura con la scritta: “In questa casa / Federico Nietzsche / conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto / la volontà di dominio / che suscita l’eroe // qui / ad attestare l’alto destino / e il genio / scrisse ‘Ecce homo’ / libro della sua vita // a ricordo / delle ore creatici / primavera autunno 1888 / nel I centenario della nascita / la città di Torino / pose / 15 ottobre 1944 a. XXII e.f.”.