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Iannozzi Giuseppe intervistato

Creato il 13 agosto 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

da Angela Scarparo

Una vecchia intervista che rilasciai ad Angela Scarparo: si era nel lontano dicembre del 2005. Ma i temi qui trattati sono ancora più che mai attuali, ragion per cui ripropongo l’intervista in versione integrale qui. – iannozzi giuseppe

Iannozzi Giuseppe - agosto 2011

(c) Iannozzi Giuseppe - agosto 2011

1. Nei tuoi interventi sui vari blog che frequenti, sei spesso polemico nei confronti di critici, editori, scrittori. Sembri quasi dire che chi lavora lo fa soltanto perché ha conoscenze, incontra persone, appartiene a famiglie di. Perché dici questo? Ti è capitato di entrare in contatto con persone dell’ambiente e di essere rifiutato? Hai episodi di ‘razzismo’ diciamo così, da raccontare?

Sono di natura polemico, ma non perché la cosa mi porti divertimento, o distrazione da me stesso. Credo invece che oggi manchi in una misura critica il saper esser polemici – o in lotta contro meccanismi assurdi, che, eppure, pare funzionino e si consolidino day after day, assumendo sempre più carattere di tradizione. Mia convinzione è che l’opera di uno scrittore, di uno qualsiasi, è superiore all’autore stesso. L’editore è sostanzialmente un simpaticone, spesso ricco di pregiudizi, spesse volte ignorante e caprone, e a dirla tutta un businessman troppo preoccupato di gonfiarsi le tasche per preoccuparsi della qualità dei libri che pubblica; il vero problema – se problema è giusto dirlo – è da cercare nelle figure degli editor, che, oggi come oggi, sono diventati essenziali per qualsiasi autore noto e non. L’editor riscrive (scrive) in toto, o quasi, l’opera che andrà poi pubblicata, affinché sia compatibile con il mercato, con il pubblico. No, l’editor non fa un semplice lavoro di correzione, ma si preoccupa invece di esser ghost-writer a tutti gli effetti: sarà questo il motivo per cui ci troviamo a dover fare i conti con libri sempre più marcatamente seriali? uguali così tanto che letto uno è come averli letti tutti? Quello che intendo dire è che, oggi come oggi, non è possibile parlare di letteratura, se non in rari casi; non è possibile perché non esiste più la letteratura né il concetto né l’impegno a scrivere decentemente, per i posteri soprattutto. Oggi si preferisce dar alle stampe un libro che dura il tempo della moda del momento storico-sociale, in definitiva un lavoro che finisce con l’essere dimenticato nel giro di una stagione, un po’ come capita con le modelle anoressiche che indossano improbabili abiti – però firmati e oltremodo cari – ancheggiando sulle passerelle. In tutto ciò non c’è niente di consolante né di nuovo: sono dell’avviso che questa mia opinione sia molto diffusa, anche se si ha paura a dirla in pubblico. Tuttavia penso anche che il pubblico sia più furbo e intelligente rispetto a qualche anno fa: c’è di positivo che la crisi economica in cui è piombata l’Italia, ha portato molti italiani a riflettere maggiormente rispetto a ieri. Difatti ieri un libro o due lo vendevi, oggi non più, nemmeno se è un tascabile: la gente ci pensa su non una e non due volte prima di scialacquare denari per un paperback. Manca la qualità nella scrittura, mancano i danari, e la gente non compra. Per assurdo, la gente preferisce spendere per andare allo stadio – per la partita di calcio, l’italiano medio i soldi ce li ha, e se non ce li ha, trova il modo per averceli in tempo, prima che inizi la partita della sua squadra del cuore. Anche di ciò non dovremmo meravigliarci: è lo spirito dei tempi, per quanto possa far inalberare quei pochi che usano la testa per pensare e non per spaccarsela in una rissa di tifosi.

Pubblicare oggi, come ieri, è soprattutto una questione di simpatia, di conoscenze: se non si hanno conoscenze, non pubblichi, o meglio non vieni pubblicato. Nessuna dietrologia che non possa esser spiegata: gli editori pubblicano di tutto, purché siano nomi grossi, conosciuti al pubblico. Espongo un esempio pratico: si pubblicano libri di nullo valore solo perché chi l’ha scritto è personaggio televisivo; poi, il fatto che il libro non venda interessa davvero poco all’editore, il quale può comunque vantarsi d’aver in scuderia un nome sulla bocca di tutti. Insomma, pubblicare un incapace che però ha un nome, perché fa televisione o perché cantante o mezzobusto scopabile, è per l’editore un motivo di prestigio. Ne consegue che pubblicare è pressoché impossibile per un esordiente che non sia nelle grazie di qualcuno che è già bene inserito dentro i meccanismi editoriali: i dattiloscritti che arrivano in redazione non vengono tenuti in nessun conto, il più delle volte non vengono neppure degnati di uno sguardo, molte volte vengono presto cestinati, e all’autore arriva una classica lettera di rifiuto, una di quelle prestampate. Questo comportamento è uguale per un po’ tutte le case editrici, sia che godano fama di essere di destra, sia che si spaccino di sinistra o anarchiche, o aperte a tutti e a tutte le opinioni. In verità non ho detto nulla di nuovo: dacché esiste il mondo dell’editoria è sempre stato così, e non cambierà di certo oggi.

La critica è un’altra bella bestia: mi scappa di dire che dove spari cogli bene. Il critico è quanto di più assurdo possa esserci al mondo, un animale che non rischia di certo l’estinzione, e che solo è capace di dar corso a dei seri danni nei confronti di editori e scrittori. Il critico di oggi, quello che non c’ha le pezze al culo, e che si può permettere di pubblicare recensioni su grossi mass-media finisce sempre col parlare dei soliti autori che a lui stanno simpatici. In rete accade lo stesso, più o meno: le notizie più interessanti non le trovi sui blog tenuti da rinomati critici o giornalisti, ma altrove. Il critico, il giornalista noti finiscono immancabilmente col parlare dei soliti autori, segnalano sempre, con gran grancassa, interviste a grossi autori e mai interviste ad autori esordienti o poco conosciuti al grande pubblico. Anche in questo caso credo di non aver messo in luce nulla che non si sapesse già.

Io non direi che esiste il razzismo nel circuito editoriale: è, a mio avviso, più giusto parlare che c’è chi può permettersi di pubblicare e chi invece no. E non è un mistero, anche se una simile asserzione par sia difettosa, in quanto perfettamente apodittica.

Forse ieri – innegabilmente – avevo alcune velleità, e sì, ci tenevo a pubblicare qualche cosa di mio: ho iniziato a scrivere molto presto, e di roba nel cassetto ne ho parecchia, ma penso che la maggior parte valga poco o nulla. Come chiunque, pure io mi sono proposto agli editori… A un certo punto è accaduto che mi son rotto le scatole, e mi son rotto di più di rompere le scatole, così ho aperto un mio blog personale, dove non c’è nessuno che mi dice che questo non è commerciale e che quest’altro è poco politicamente corretto, o privo di stile. Ma essendo che qualche pazzo si ostina a chiedermi perché non pubblico, non è detto che in un prossimo futuro non ci faccia su un pensierino.

Mi chiedi di episodi di razzismo, diretti alla mia persona? Mah! Credo che chiunque si propone a un editore abbia la presunzione d’esser vittima di un carnefice. Però, per quanto ho sopra esposto, direi che c’è un forte margine di verità nella presunzione, ovvero: ogni autore che tenta di entrare a contatto con l’editoria, con il suo mondo, è innanzitutto una vittima sacrificale, un agnello e un semplice coglione allo sbaraglio.   

2. King Lear è un blog molto conosciuto. Tu se non sbaglio, sei un giornalista. Scrivi anche su carta stampata? Hai scelto apposta di lavorare via Internet? Ti è capitato?

King Lear – Officina Avanguardie (oggi c’è Jujol Cultura e Spettacolo di Iannozzi Giuseppe) nacque come multiblog ben più di due anni or sono: al tempo era ancora in vita Società delle Menti. Poi questa è naufragata, e Giuseppe Genna, tra mille difficoltà, ha messo su I Miserabili – che oggi sembra esser e-zine destinata a congelarsi. Ma sospetto sia solo una manovra del Genna per prendere respiro, e per far promozione alla suo ultimo lavoro. Insomma, forse sbagliando, non credo che l’e-zine affonderà con facilità. Comunque sia… King Lear era nato per desiderio (volontà) di tre menti. Dei fondatori, uno ha deciso di lasciarci per seguire la sua propria strada: si può dire che il progetto King Lear è oggi molto più ampio rispetto a ieri; la parte gestionale è mia, ma a collaborare coi loro scritti sono in tanti. L’idea precipua è quella di dare spazio a tutte le voci, indipendentemente dalle proprie convinzioni politiche e/o religiose. In tal senso credo di non aver mai censurato nessuno su King Lear. Ovviamente devo fare in modo che gli articoli proposti abbiano tempo di maturare e di arrivare così ad almeno un certo numero di persone, quindi gli aggiornamenti subiscono delle flessioni; a volte si pubblicano cinque pezzi in una sola botta, e poi si sta fermi. Oppure può accadere che si pubblichi un pezzo al giorno, o due. Inutile intasare il blog-ezine di informazioni: la gente deve poter avere il tempo di leggere.

Sì, sono anche un giornalista, free-lance: significa che non dipendo da nessuno, e che scrivo per chi mi chiama, ma se vengo chiamato, io pretendo d’esser pagato sull’unghia per il lavoro. In rete scrivo a mero titolo hobbistico, diciamo così, nel senso che non ho né sponsor né interessi a recensire un libro piuttosto che un altro. Scrivere in rete è un lavoro, ma a titolo gratuito: una scelta anche. Ma non si vive d’aria né di carta stampata. Credo di fare il possibile per gestire al meglio le mie apparizioni in rete, e non nego che alle volte faccio non poca fatica a stare dietro a tutto, o quasi. Tenere un blog personale è un lusso, un lusso che impegna molto, perlomeno se come me hai la pretesa che sia un blog letterario. Ma un blog non è la pagnotta. Tieni poi conto che c’è King Lear che abbisogna di molte cure; per la rassegna stampa, se il libro non è stato letto da me o da uno dei collaboratori, significa che l’articolo non lo metto on line: è stupido mettere on line recensioni di libri di cui nessuno ha conoscenza diretta. Se c’è una cosa che non reggo è la rassegna stampa selvaggia: mettere pezzi on line, per me, significa avere conoscenza diretta di ciò che si sta parlando, altrimenti è solo farsi delle marchette.

3. Qual è il tuo lavoro, la tua fonte di reddito?

No comment.

4. Nelle cose che scrivi, parli di cose apparentemente molto diverse. Soggetti che sembrano quasi stare agli antipodi: storie d’amore; sguardi sul sociale; poesie dedicate agli umili; storie di derelitti. Oggi, ci capita a volte di lottare in nome degli studenti, degli immigrati, dei senza tetto, dei senza diritti. Non è sempre stato così. In altre epoche i diritti da ‘conquistare’ riguardavano direttamente la ‘propria vita’. Credi che questo produca una divaricazione fra impegno e  quotidianità? Credi che si crei una ‘schizofrenia’ irriducibile?

Premessa: lotto ogni giorno per affermare quelli che sono – o dovrebbero essere – i miei diritti vitali, della mia propria vita. Dico questo perché se come me racconti di chi ai margini, devi avere conoscenza dell’intorno sociale. Inventare non è sufficiente né responsabile per uno scrittore, o per uno che ha la presunzione d’esser anche uno scrittore. Solo vivendo la vita, l’intorno che è intorno alla vita, è possibile raccontare la vita. La fantasia può aiutare, e lo fa sicuramente per un buon racconto bell’e finito; ma un racconto deve essere soprattutto proiezione dei mali della società. Poi può essere etichettato come noir, thriller, fantascienza, ecc. ecc., però, a mio avviso, una buona storia non può essere esclusivamente un lavoro di fantasia. Se voglio leggere dei lavori di fantasia, allora torno a leggere Emilio Salgari: leggendo Salgari ci si rende perfettamente conto che lui fu tra i primi ad adoprare tutti i possibili stereotipi per dar vita a storie originali, ma di fantasia come ben sappiamo. Quello che noto oggi è questo: un autore scrive un thriller, o un giallo, o anche fantascienza, poi gli domandi se c’è un messaggio politico e/o sociale, e l’autore ti fissa male, quasi volesse fulminarti… alla fine risponde che è una storia, che è soprattutto una storia e che se c’è un messaggio, be’, è un effetto collaterale.

Io direi che, spesse volte, le idee esposte nell’opera di uno scrittore sono superiori alle idee dell’autore stesso: sembra una assurdità, un controsenso, ma penso che molti scrittori giochino su questo controsenso per dirsi e non dirsi autori impegnati. Gli scrittori sono anche degli schizofrenici, e guarirli ritengo sia impossibile.

5. Nei tuoi testi la donna è spesso vista come ‘angelo’ o come ‘puttana’. Uno dei tuoi ispiratori sembra essere Bukowski che infatti la pensava come te. Ma Bukowski, mi permetto di dirti, scriveva in un’altra epoca. Non credi che un rapporto ‘alla pari’ come oggi molto spesso è fra uomini e donne, ti aiuterebbe a raggiungere un maggiore equilibrio esistenziale, e come scrittore?

La donna è puttana  o è angelo, così se l’immagina l’uomo. Ma è sbagliato: perché anche gli uomini o sono puttane o angeli. Se scrivo di donne-puttane è solo per essere maggiormente commerciale, non per altro.  Quello che intendo dire è che quando descrivo un rapporto occasionale fra un uomo e una puttana, la puttana è femmina solo per una questione commerciale.

C’è un equivoco di fondo, che spero di chiarire: io amo molto ciò che Charles Bukowski ha fatto e ha scritto, ma non mi sognerei mai di imitarlo. Se tentassi di essere un suo epigono, come tutto risultato sarei soltanto ridicolo. Non m’interessa imitare gli altri, e le esperienze degli altri. Hank era un porco con le ali, come ebbe a dire una mia amica. Io sono solo un porco e basta, molto più vicino alle idee di Henry Miller. Se per questo mi si deve accusare di maschilismo, allora così sia: ma non credo affatto d’esser maschilista. Non credo in un supposto rapporto alla pari: chi lo va cianciando in giro spara solo una supposta su per il culo a chi vuol credere nell’illusione che i rapporti fra uomini e donne possano essere alla pari. E con ciò non sto assolutamente dicendo che l’uomo sia più intelligente della donna; semmai è vero il contrario. Ma penso che l’intelligenza femminile e quella maschile siano diverse; però quando riescono a incontrarsi, ad amalgamarsi, allora si compie una sorta di miracolo intelligente. Di amore, in alcuni casi. Checché se ne dica, l’amore è una questione di elettricità, di chimica all’interno della scatola cranica, del cervello. Bukowski scriveva nella sua epoca, Henry Miller nella sua, il Divin Marchese (Sade) nella sua, Mirbeau nella sua. Io scrivo del mio tempo, delle mie esperienze. Solo una volta ho scritto un racconto pienamente bukowskiano, imitando Bukowski, e si è innescato subito un flame. Non mi sono mai detto poeta, né ho mai pensato d’esser un poeta: il poeta è uno spirito grande, immenso, un genio sensibile, e io non lo sono, questo lo so per certo. Se qualcuno dice di me poeta, io non posso che provare almeno un po’ d’imbarazzo. In passato – ma anche oggi – scrivevo delle poesie bukowskiane, ma in verità sono prose brevi che sembrano aver un costrutto poetico. Le scrivo senz’alcuna pretesa, per divertirmi: non sono nemmeno un esercizio di stile o di rifiuto stilistico.

Se intendi me scrittore come uno che scrive parecchio, allora sì, lo sono: anche in questo momento sono uno scrittore, ma per il semplice fatto che scrivo delle parole. Gli scrittori, quelli veri, sono coloro che pubblicano su carta, che hanno un editore, che hanno un pubblico che non è solo quello che si può trovare in rete. Chiunque scriva, fosse anche solo la lista della spesa, è uno scrittore!

L’equilibrio è difficile, per chiunque: lo si raggiunge mai… mai alla perfezione. L’equilibrio non esiste: esiste il tentare di migliorarsi e di migliorare il proprio equilibrio. Ma un equilibrio esistenziale perfetto non ce l’ha avuto mai nessuno, nemmeno quell’uomo che dicono sia esistito veramente, e che vien detto il Figlio di Dio.

6. Che rapporto hai con la ‘comunità letteraria’? Frequenti al di fuori dei blog, altre persone che scrivano professionalmente?

Che rapporto ha la “comunità letteraria” con me? (Mi piace di più così la domanda.)  Forse qualcuno mi ama, forse qualcuno mi odia.
Però parlare di comunità letteraria è abbastanza generico: esiste una comunità, una che sia letteraria? Forse che sì, forse che no. In fondo, ammettendo che questa comunità esista veramente, il mio rapporto con essa è allo stesso tempo di amore e di odio, in eguale misura.

Mi par ovvio che frequenti degli scrittori, dei critici. Anche se non capisco il motivo della domanda: è come se mi si chiedesse quante volte esco con la mia donna, quante volte nell’arco della settimana facciamo all’amore e se lo facciamo con o senza il profilattico…  insomma dettagli privati che anche se li rendessi pubblici non aggiungerebbero nulla a quelle che sono le mie idee.

Ti posso dire che sono diverso, molto diverso rispetto a due anni fa, almeno su di un piano personale, di vita. Se qualcuno credeva di sapere qualcosa di me, be’, mi sa che adesso non sa più niente di me.  Direi che ho detto di me fin troppo, fino a venirmi a noia.

7. Ci sono scrittrici (anche non contemporanee) o scrittori che ti ispirino particolarmente?

Una domanda non poco difficile, rispondere e dire quali – quanti – scrittrici e scrittori hanno influenzato le mie idee, il mio modo di scrivere. Tra gli scrittori, due agli antipodi: Gabriele D’Annunzio e William S. Burroughs, ma anche Allen Ginsberg. Ecco, non hanno proprio nulla in comune. Diciamo che dal dannunzianesimo mi sono presto liberato, e ciò è un bene per quanto mi riguarda. Burroughs e Ginsberg no, sono sempre presenti nella mia scrittura, almeno in una certa misura. Tra le scrittrici sicuramente Virginia Woolf, Grazia Deledda, Ursula K. LeGuin… In verità sono molti/e ad avermi ispirato: per me, punti cardine rimangono, oltre ai già citati, in ordine sparso, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Sebastiano Vassalli, Aldo Busi, Umberto Eco, Pino Cacucci, Sade, Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft, L.F. Céline, Pier Paolo Pasolini, Gabriel Garcia Marquez, Hermann Hesse, Thomas Mann, Lev Tolstoj, Ernest Hemingway, Pirandello, Walt Whitman, Charles Bukowski, Raymond Carver, Andy Warhol, Salman Rushdie, Philip K. Dick, Cormac McCarthy, Raymond Queneau, Diego Cugia, Dacia Maraini, Carmen Covito… E pur riconoscendo la loro grandezza, personalmente, ho una sorta di rigetto nei confronti di Giacomo Leopardi, Emily Dickinson, e altri ancora: diciamo che non mi ispirano grande fiducia quegli scrittori che hanno fatto della loro vita reclusione e tormento assoluto, immobilità. Non reggo granché quegli autori che hanno vissuto con la sola immaginazione la loro vita: li trovo indecisi, quasi falsi nell’espressione dei loro propri sentimenti tradotti in poesia o prosa. Direi che lo scrittore (o scrittrice) ideale per me è colui (colei) che vive la sua propria vita vivendola al massimo, sì, facendo l’eco alla famosa canzone del Blasco. Gli scrittori, per così dire, immobili mi fanno pena, anche se poi, nei loro confronti almeno, prevale una punta di cinismo, perché… perché in fondo hanno meritato d’esser immobili. In verità son poche le scrittrici contemporanee e non che mi ispirano: direi che ho sempre trovato insuperabile la prosa di Virginia Woolf, mi ha sempre fatto rabbia, una scrittrice, a mio dire, ben più che superba. Cazzo! Ci fossero scrittrici che oggi sapessero scrivere come la Woolf, ti assicuro che sarebbe un piacere immenso avere, comprare i loro libri. Ma così non è: troppe volte mi ritrovo a dover fare i conti con romanzetti da poco, come quelli di Simona Vinci, giusto per citare una penna al femminile che non mi piace affatto. Mi piace invece Isabella Santacroce, che, a mio avviso, ha saputo portare una ventata di reinvenzione linguistica già a partire dagli anni Novanta.

8. Ti interessa il lavoro critico sui testi? Se sì, che tipo di critica ti piace, diciamo così?

Il lavoro critico sui testi non esiste, non più, non oggigiorno. Non sono né per Antonio Gramsci né per Benedetto Croce. Non sono per la Restaurazione né per altro. Sono dell’idea che esistono libri scritti bene e libri scritti male. I secondi li dico anche “commerciali”, quindi destinati ad essere dimenticati.

Oggi la critica mi pare che vada solo incontro a logiche di mercato: è insomma assolutamente acritica. Non si opera lavoro critico sul testo, si fa invece pubblicità ai libri, affinché ogni uscita editoriale possa esser reclamizzata come capolavoro. Purtroppo gli intellettuali e non, son quasi tutti affetti da un brutto vizio (o malattia), quella del capolavorismo.  Si è pronti ad arrampicarsi sugli specchi pur di difendere libri che non meriterebbero nemmeno due righe sul giornaletto dell’oratorio.  Questo è il meno: ciò che è più grave è che si parla solo e sempre dei soliti quattro autori. Anche questo un bel vizio che si è diffuso non solo sui giornali cartacei, ma anche sui blog e sulle e-zine, quindi in rete. Siamo in un paese profondamente ignorante: si finisce col parlare sempre dei soliti quattro o di Melissa P., e guai a dirne male, perché dire contro uno dei tanto reclamizzati è spararsi nelle palle da soli, o essere in cerca di guai.

La critica che mi piace non c’è, né esiste. Mi piacerebbe che si parlasse criticamente dei libri, non per andare incontro ad esigenze di mercato, né per far gonfiare il petto agli autori recensiti. Mi piacerebbe che si parlasse di autori, e non dei soliti quattro, cinque, sei… Mi piacerebbe  che si parlasse molto ma molto di più di autori esordienti e non, che però sono pubblicati da piccole case editrici. Ma invece si parla a solo favore dei grossi autori che sono pubblicati da grandi editori.

Mi piacerebbe che ci fosse maggior serietà e onestà critica, soprattutto

9. Che pensi dei cosiddetti ‘romanzi commerciali’?  Ne leggi? Mai pensato di scriverli? Esiste la categoria ‘romanzo commerciale’ secondo te?

Come potrai (forse) intuire, non ne penso un gran bene. Mi portano orticaria e nervoso. Mi annoiano. Snob? Forse che sì, forse che no. Però sì, ne leggo di libri commerciali: bisogna pur conoscere il nemico per poter sperare di amputargli almeno una gamba. Tra i commerciali, riescono a non annoiarmi pochi nomi: Michael Connelly, Terry Brooks, Paul Doherty, Chuck Palahniuk, Stephen King, Ken Follett, Alberto Bevilacqua, e perché no, Dan Brown. In realtà, citare tutti gli autori commerciali che comunque leggo per averne conoscenza, mi sarebbe impossibile.

Un autore commerciale è per me uno scrittore che scrive in maniera seriale, che si basa su degli stereotipi per dar corpo a un romanzo che resisterà giusto il tempo di una stagione, per poi esser dimenticato. Possono essere divertenti – e necessari alla mente anche -, ma credo sia sbagliato considerarli qualche cosa più di scrittori che scrivono “prodotti”.

La categoria “romanzi commerciali” esiste: sono tutti quei romanzi che l’anno appresso non saranno più di moda, quindi di nessun interesse né per il pubblico né per la critica. Siamo sotto la pressione costante di romanzi commerciali; ma, per nostra fortuna, è facile dimenticarli, e il pubblico dimentica in fretta, i critici ancor prima. Ciò è un bene, che in parte riequilibra la bilancia, perché è sì vero che i libri commerciali vendono tanto, ma è anche vero che si fa in fretta a mandarli al macero senza rimorsi.

Non vedo perché dovrei scrivere per essere solo ed esclusivamente commerciale: non me ne verrebbe niente, e prenderei per il culo i pochi lettori che per assurdo dovessero leggermi. Si scrive per lasciare ai posteri, e non solo per chi oggi vive l’attuale momento storico: l’incapacità di scrivere (anche) per i posteri dimostra chiaramente la mancanza di idee che possano esser piacere eternato. Un romanzo non può essere studiato soltanto per fare il tempo di una moda, anche se di fatto è questa la moda (e la tentazione) verso cui sempre più scrittori contemporanei si proiettano: un libro viene sfornato nel giro di pochi giorni (la qual cosa non è poi troppo preoccupante), assecondando quelli che sono i vizi modaioli del momento, quindi se oggi va il porno condito da un po’ di finto lolitismo, il sedicente scrittore scriverà un romanzo che contenga una lolita-puttana, un po’ di sesso con una spruzzatina di religiosità versata a una possibile redenzione, ecc. ecc. Di simili libelli siamo pieni, infarciscono le librerie: ma come ho già avuto modo di dire, sono libri che resistono giusto il tempo di una stagione, poi scompaiono. Però per essere sostituiti da un’altra moda. Scrivere tanto per scrivere, per far felice un pubblico di adolescenti pieni di acne e di vecchi bavosi mi pare assurdo e inutile.

10. Che tipo di rapporto hai col cinema? Pensi in termini ‘d’immagini’ quando scrivi? Guardi film? Leggi fumetti? Che tipo di rapporto hai con la cosiddetta ‘cultura di massa’?

Con il cinema ho un rapporto molto bello: amo il cinema, sono decisamente onnivoro, nel senso che guardo di tutto. Con la tv invece ho un rapporto non troppo felice: troppi assurdi varietà, troppo calcio, pochi film. Il cinema è arte: ci sono registi per cui darei una mano, tipo Stanley Kubrick, Wim Wenders, Gabriele Salvatores, Woody Allen. Amo le storie ben costruite, adoro l’immagine che diventa poesia sullo schermo. Un’immagine, un’inquadratura possono raccontare da sole una vita intera, un romanzo.

Penso sempre in termini di immagini quando scrivo. Anzi, è più giusto dire che scrivo in termini di tempi e di immagini: quando scrivo un dialogo, immagino quanto tempo prenderebbe se fosse in bocca a degli attori. E cerco di figurarmeli questi ipotetici attori, quali smorfie o sorrisi tirerebbero fuori, come e perché.

Come tutti credo di aver divorato un gran numero di Topolino, almeno in giovane età. Ne serbo ancora memoria: però le storie di Topolino non mi piacevano granché, preferivo Pippo e Paperino, le loro storie. Topolino l’ho sempre trovato un tipo di quelli che ti verrebbe voglia di spaccargli il muso, un tipo di quelli che se ne va in giro a dire io-sono-il-più-bravo-di-tutti. Non mi è mai stato simpatico, tant’è che ho sempre tifato per Gambadilegno. I Peanuts rimangono i fumetti, le caratterizzazioni che preferisco: questi bambini dalla (e della) fantasia di Charles M. Schultz racchiudono, o meglio verbalizzano nevrosi, quelle degli adulti, e che sono quelle di tutti i giorni. Sono personaggi attuali, perché ritratto fedele della società che viviamo.

Se per cultura di massa intendi i varietà, i giochi a premi, i quiz, e altre fregnacce del genere, allora ti rispondo che con questa roba non voglio averci nessun rapporto, neanche occasionale.

Se invece per cultura di massa intendi libri, film, musica, fumetti…, allora mi tocca di dire che esiste della cultura di massa ben fatta, ma anche una che è invece destinata e pensata per essere divorata dal popolo in un tempo brevissimo. Spero che non si sia così miopi da confondere e mettere sullo stesso piano Vittorio De Sica e Christian De Sica, tanto per intenderci.

11. Ci sono passioni, soggetti, incubi, che ti porti dietro da sempre?

I soggetti li ho scoperti vivendo, così anche le passioni. E gli incubi si sono fatti avanti invecchiando; ma la vecchiaia li sa anche stornare.

“Da sempre” è un tempo troppo lungo e non concepibile (comprensibile) all’uomo che è un soggetto a termine.

Col tempo ho scoperto un po’ di narcisismo, e sino ad ora non l’ho rinnegato.

12. C’è qualcuno o qualcuna che hai preso a modello per il tuo lavoro? C’è qualcuna o qualcuno che ti abbia trasmesso la passione, insegnato a scrivere?

Gabriele D’Annunzio il mio primo modello, ma ero molto giovane e molto più coglione rispetto a oggi. Poi i modelli si sono fatti strada con gli anni della maturazione, e sono cambiati di giorno in giorno, perché l’unico modello che mi interessa oggi è quello dell’uomo che non smette mai di cercare (di imparare) da sé stesso e dagli altri.

No, nessuno: in casa, quando io nacqui, non c’era nessuno che leggesse qualcosa di più della stampa, e forse nemmeno. C’erano altre priorità a cui guardare che non il lusso delle parole prigioniere delle/nelle pagine.

Forse ci sono nato con la passione per la lettura e la scrittura! Nessuno in tal senso mi ha mai stuzzicato. E qualcuno mi ha considerato un po’ matto a perdere tempo dietro ai libri.

Prima che imparassi a scrivere, ricordo che disegnavo moltissimo, qualsiasi cosa: la mia seconda grande passione è la pittura. Ancor oggi, nei momenti di tempo libero, dipingo.

Quando mi hanno imparato a leggere, a scrivere, ho iniziato e non mi sono fermato più. I miei compagni di classe volevano le figurine Panini, io invece a mia madre chiedevo un libro o un fumetto: in tal senso mi ha sempre accontentato, comprandomi sempre quei libri che io le indicavo perché visti in una vetrina.

Grazie, Giuseppe. A presto A.  

Grazie a te, è stato un piacere, divertente e istruttivo.

Alla prossima. E buone cose.

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