Sono le tre, la notte è fresca, la finestra della stanza è aperta. Il buio invade tutto, le luci del vicoletto non arrivano ad illuminare niente, sono ingoiato dal niente. Mi sento niente. Sono solamente consapevolezza. E’ in questi momenti che ricordo, quando la mente è così vuota che fa eco qualsiasi cosa vi entri.
Sento l’abbaiare di un cane. Ricordo i tuoi cani, non so per quante notti abbaiavano senza sosta mentre mi dormivi accanto, li sentivo correre dal balcone al giardino, dal cancello alle scalette di entrata. Rivedo il loro pelo nero, e le loro forme mastodontiche. Li accarezzo col pensiero… e riprendo sonno, o forse no.
C’è qualcuno nella stanza.
Sento la presenza di qualcuno nella stanza. La porta è chiusa, ma vedo un’ombra ferma tra la finestra e il letto. Sobbalzo. Mi volto dall’altro lato, ma avere le spalle scoperte non giova a calmarmi. Non voglio scappare sotto le coperte, fa troppo caldo. Allora mi faccio coraggio: mi volto di botto e fisso verso l’ombra.
Si sposta verso il letto e si siede. Sento il peso di un corpo, che piega le coperte e fa suonare, con un sinistro carillon, il materasso.
“E’ successo qui dentro vero?” la voce sembra venire dalla parete dietro di me, dalla mia testa, da fuori la finestra aperta, o dalla cucina. Priva di eco, ma non era minacciosa. Una voce curiosa ma sicura della risposta. Rispondo: “Si.”
“Perché? Perché hai pensato di farlo?” l’ombra restava ferma e appannata davanti ai miei occhi, senza muoversi. Sembrava che tutto il buio della stanza fosse concentrato in un unico punto e formasse quello che io vedevo come una persona, ma non ne ero così sicuro.
“L’amavo, l’ho fatto per amore!” l’unica risposta banale che sapevo dare in quel momento.
E vidi una nera processione, un carro funebre pieno di fiori bianchi. Delle ghirlande erano appoggiate ad ogni angolo della strada, una fila lunghissima di persone, che seguivano quel macabro capitano, scendere verso la strada del cimitero. Ed ecco che vidi mia madre, appena dietro all’auto nera, la sorreggeva mia cugina e accanto c’era mio padre. Rosso in viso e con gli occhi di carbone, il verde era sparito e la sua espressione sorniona era stata sostituita da un gigantesco peso di sofferenza. Piangevano tutti, molti parlavano dell’ultima volta che mi avevano visto, parlavano delle mie situazioni e si pronunciava spesso “quel nome”. Tra la folla notai molte persone che non vedevo da tempo, tutte sofferenti, a ricordare, a chiedersi se avrebbero potuto fare qualcosa. C’era Daniele che piangeva come un bambino, mentre stringeva la mano di Seby, c’era Dino che non riusciva a mantenere le lacrime e parlava con Marianna cercando di calmarla. Nella folla tra una spalla ed un’altra vidi anche Ivana, con un paio di occhiali scuri e un vestitino nero, tirava su col naso e camminava a testa bassa. E accanto a lei, c’eri tu.
“Per amore. Una nobile causa.” rispose la voce, ridestandomi dalla visione.
“Non è importante adesso…” dissi, cercando di essere il più normale possibile. “Sei reale?” domandai per poter prendere una posizione con la mia razionalità.
“Sono reale quanto pensi che io lo sia. Non sono Dio, ne vengo a nome suo. Non sono il frutto della tua mente, non sono uno spirito, non sono nemmeno un diavolo o un demone. Sono qui, adesso e ora.”
“Sei qui, perché?” chiesi.
“Sono i vostri ‘perché’ a farvi soffrire così tanto.” la voce girò per la stanza.
Caddi in un sonno profondo.
Iblis si sposta dalla poltrona, e attraversa la stanza in un volo silente. I piedi non poggiano sul tappeto curato e pulito, sulle scarpe lucide il riflesso della stanza si spegne man mano, e il corpo disteso nell’aria si avvicina all’albero e ne raccoglie un frutto. Il suono che finemente taglia il silenzio è di un leggero battito d’ali, e un granello pesante cade nella clessidra. Un granello, un altro errore. L’uomo che insonne percorre le vie disegnate da Morfeo, non conosce ancora il motivo del suo brusco risveglio, è altrove. Una catena di eventi si srotola come tappeto ai suoi piedi, ed Iblis osserva tutte quelle linee che si incrociano. Studia attentamente gli avvenimenti che sarebbero avvenuti in quei giorni terrestri. Con il frutto ancora tra le dita affusolate si avvicina alla finestra buia. E dal palazzo d’avorio lo lascia cadere giù.
Pochi metri più in basso il sacro frutto diventa piumato, un uccello nero prende il volo scendendo in picchiata.
La mattinata è la solita. Il sole si alza e scava nelle persiane chiuse, tagliando a strisce il parato e i mobili della stanza; quella luce gialla ovattata, non lascia molto spazio ad altri pensieri che alla tranquillità del posto. E’ sempre quella mattina in cui ti svegli, in quel dato momento della tua infanzia, con gli stessi colori che nemmeno le foto possono trattenere, ma ci metti tutto te stesso per dipingerla bene nella mente, in modo da voler sentire, anche con un po’ di masochismo, quella malinconia che punge la lingua, acre come un limone. Sento gli uccelli cantare, svegliati anche loro dalla stessa luce. Nella stanza semi-buia l’odore del caffè mi sveglia, e il primo pensiero va (da solo) ai tuoi piedi, attorcigliati ai miei, alla tua schiena sudata che lasciava un alone sul lenzuolo chiaro. Socchiudo gli occhi e fingo che sei lì con me, solamente per un attimo. Mi vedo seduto ai piedi del letto, guardarti dormire, mentre pieghi le ginocchia verso il petto, stringendo il cuscino. Le tue mutandine nere, quasi trasparenti lasciano intravedere i regni della notte prima. Poi il pensiero diventa troppo pesante e quindi mi alzo. Sono io adesso in mutande e leggermente stonato. Indosso il pantalone per entrare in cucina, di solito c’è mia cugina, ma stamattina non c’è, sarà già passata prima di andare a lavoro. Mia madre è fuori al balcone, seduta su una seggiola e guarda la luce percorrere le case e le pareti, illuminare man mano il giardino sotto di noi… e senza voltarsi mi dice: “Il caffè è già pronto… e lì”: indica la tazza piena di liquido nero che fumante anticipa il gesto della mia sigaretta. Il caffè fuma prima che tu lo faccia. Ieri notte nel centro storico bevevo liquidi chiari per ‘addormentarmi’, adesso che è mattina ingerisco liquidi scuri per ‘svegliarmi’. Le strane assonanze della vita ci martellano costantemente. Non comprendiamo se sia un caso o meno, ma succede sempre. Come quando pensi ad una canzone e subito dopo qualcuno passa e la sta fischiettando. Così va avanti l’esistenza dell’essere senziente: Enrico. Intrappolato tra milioni di sensazioni e voci, milioni di soluzioni ed enigmi, milioni di vite e paracaduti-aperti-giusto-in-tempo. Sorseggio il caffè, sono fuori al balcone con mia madre: una donna che non basterebbe un libro per poterne svelare l’arcano; troppo buona per vivere bene, troppo ignara per capire la posizione che ha assunto nell’universo. Una donna che abbraccia un uovo e porta alla luce un serpente…
“Stanotte ho visto una presenza vicino al letto che frugava nel mio comodino, non sono riuscita a dormire.” dice mia madre con la voce rauca dal sonno. Io mi volto, e fingo di non aver sentito, lei sa che semmai avessi sentito una cosa del genere l’avrei avvertita; probabilmente stava dormendo, avrà sognato. Non le parlo di quello che mi è successo quella notte, non capirebbe, d’altronde non capisco nemmeno io. Vivo nella costante paura di non essere capito, e alla fine è così, ripetutamente. Il mondo si muove per incomprensione nell’attesa dell’adrenalina che ci lucida i pensieri. “Non so’, Mà… sto ancora dormendo, ne parliamo dopo…”
Mi rollo una sigaretta di Marlboro, l’accendo e faccio la prima boccata, imito il caffè che poco prima era nel bicchierino, preveggenza atavica. Esco di nuovo fuori al balcone, mia madre entra e comincia, come una forsennata, a fare i ‘servizzi’ come si chiamano qui. Pulisce in luoghi già puliti, con l’ossessione che arrivi qualcuno improvvisamente ad ispezionare la casa. Io, intanto rientro per indossare una maglietta e prendere un libro… mentre fumo, leggo. Questa scena si ripete così ogni mattina. Potrebbe sembrare noioso, ma in realtà è l’unico momento del giorno in cui lascio riposare più allungo i pensieri. Non voglio svegliarli bruscamente, quindi li lascio russare e vengo invaso da altro.
Seduto sul divano in cucina alzo gli occhi di scatto, guardo fuori alla finestra che da sul vicolo. Sul tetto della signora difronte c’è un uccello, scuro e strano. Resto a guardarlo, mentre sembra che lui faccia lo stesso. Sulla testa una piuma appuntita si innalza verso l’alto, ed i colori del restante piumaggio si immergono in rossi che non ho mai visto. Quell’uccello è lì per dire qualcosa, e lì per indicarmi qualcosa. Subito la mia mente inizia a fare congetture. Tra le milioni di sconnessioni trovo la linea che mi dirige verso una probabile soluzione: quell’uccello non esiste. Quello è solo un segno, una visione, come una delle tante. L’arco a tutto sesto che è nella mia anima si innalza verso il cielo, assorbo la notizia e vedo il futuro. Le nozioni che avevo accumulato nel tempo prendono il loro pieno significato, e quell’essere comune che dagli altri viene chiamato: ‘Enrico’ diviene il ricettacolo delle linee.
Nel frattempo, in un luogo dove crediamo che non esistono le coincidenze un paio di occhiali si rompono. Per evitare di vedere quello che sta per accadere.
Enrico Khu Manzo
autobiografiadiundandy.blogspot.com
foto di Sebastiano Cautiero
Prima parte: http://wordsocialforum.com/2014/07/18/iblis-di-enrico-khu-manzo/