Avete mai visto lo spot che qualche anno fa la L’Oreal ha pubblicato su Youtube il cui titolo era: Go beyond the cover?
Magari prima di continuare potete darci un’occhiata veloce:
Ma se Youtube va lento e non avete voglia di aspettare che si carichi o che finiscano quei maledetti 30secondi di pubblicità vi faccio un veloce riassunto, per pubblicizzare un dermablend, studiato appositamente per la copertura dei tattoo, hanno mimetizzato il modello Rick Genest, conosciuto come Rico Zombie boy, e ce lo hanno ripresentato al “naturale” per poi riavvolgere il nastro e smascherare tutti i suoi tattoo. Il messaggio della campagna è: “How do you judge a book? .. Go beyond the cover“, magari un concetto un po’ discrepante per un prodotto che deve la sua esistenza al concetto di estetica e al voler effettivamente nascondere qualcosa.
Difatti i make up artist di L’Oreal per andare “beyond the cover” hanno impiegato ben sette ore di lavoro per coprirlo “solo” dalla cintura in su. Ma, se come dice il fotografo Hemingson “il corpo è un tempio e i tatuaggi sono le sue vetrate”, allora cosa vuol dire tatuarsi l’80% del tuo corpo? Che storia c’è in questo libro?
Per Rico, i cattivi, dicono che il suo aspetto attuale sia stata una scelta commerciale per promuoversi, una réclame che tra campagne pubblicitarie, copertine, comparse in video musicali (Born this way – Gaga) e film (Ronin 47), sicuramente ha economicamente funzionato ma che sembra, considerando tutto il dolore sopportato in sei anni per arrivare al risultato finale, un giudizio avventato e dalle poche interviste recuperate su internet, ma soprattutto con la mente sgombra da pregiudizi, ce ne si può fare un idea.
Il mondo moda ha fatto di lui modello di ribellione, soggetto di uno stile che mira alla demarcazione del limite e alla definizione dello stesso, ma attenzione a non prendere queste parole come forme ostili o riprovevoli. Bisogna essere invece veramente colpiti dal modo in cui ha vissuto questa trasformazione e ha voluto appropriarsi del suo corpo, perché una volta che si è fatta una scelta del genere di certo non si possono avere ripensamenti, neanche con tutto il dermablend del mondo.
Questa scelta definitiva che gli è costata il nick: Zombie boy, che tra l’altro lui odia, è partita proprio dalla consapevolezza scaturita dall’esperienza del limite, Rico è stato operato a 15 anni per l’asportazione del tumore al cervello, e ha visto in questo “cambio di pelle” una sorta di rincarnazione che spiega cosi in una delle sue dichiarazioni: “Tu devi fare ciò in cui credi. Tu sei quello, sei ciò che ti crei.”
Magari leggendo la moda nella sua accezione negativa, quella che rimanda alla superficialità, il concetto, l’Essere e la storia vengono fagocitati, rimandando solo a delle immagini su carta patinata dove ogni cosa sembra essere stata abbinata da un plotone di stilisti, stylist e interi uffici marketing; ma i nostri cari L’Oreal ci dicono: Go beyond the cover!, e cosi apriamo delle copertine diverse da quelle di Vogue o Nylon, per provare a scorgere questi racconti di inchiostro.
In Educazione siberiana l’autore Nicolai Lilin scrive: “Un tatuaggio non è semplicemente un disegno. Vedi, un tatuatore è come un confessore. Lui scrive la storia di un uomo sul suo corpo” Rico è la sua storia, il suo corpo è il suo racconto. E infondo vestirsi altro non è che coprirsi di simboli e badate bene che parlo di simbologia non di griffe. Avere un proprio stile, vestirsi consapevolmente (questa è la VERA differenza, la consapevolezza di ciò che si fa e ciò che si vuole comunicare) cos’altro è se non raccontarsi? Se non trovare un modo alternativo per far arrivare un messaggio a chi guarda?
Tatuarsi è solo uno step ulteriore, avvalorare un concetto. È una cosa che va oltre la moda passeggera.
L’altra copertina è di Michele Serra, negli Sdraiati scrive:
“Dice suo figlio che lei odia i tatuaggi“.
“Non è che li odio, è che quando uno invecchia e la pelle si rilascia, il tatuaggio non regge più, e collassa. È una moda che non considera l’azione del tempo. Non si può fare finta di rimanere forever young” …
“Anche gli affreschi, sa, e i dipinti a olio, i mosaici, perfino le statue alla lunga si rovinano. È un arco di tempo diverso, molto più ampio, ma tutte le cose fatte dall’uomo sono destinate a deperire, e a sparire. Il tatuaggio è bello perché muore insieme al corpo. L’opera e il corpo umano sono la stessa cosa”.
E se tatuarsi è un riconoscere il proprio corpo, così come la vita, nel suo limite; Il suo limite, Rico, circense canadese classe ‘85, l’ha definito grazie all’Opera del tatuatore Frank Lewis (canadese a sua volta), che si sviluppa in 139 ossa umane, alcune delle quali diventano visi, 176 insetti e una serie di scritte incastrate fra i muscoli. Oltre ad essere sfarzoso, il suo famoso corpo tatuato, le cui immagini, forse alcune delle più belle, le troviamo nella campagna di Mugler del 2011, è soprattutto ben fatto; prendete, per esempio, la curva naturale del labbro superiore continuata perfettamente dalla linea di separazione dei denti (tatuati) o i fasci di muscoli che circondano il collo e le spalle, provano sicuramente una certa maestria per riuscire ad afferrare le giuste linee.
Ammetto che potete dichiararvi anche inorriditi, non condividere certe scelte d’immagine o semplicemente odiare qualunque tipo di tatuaggio ma credo che Herman Melville in Moby Dick spiega bene un messaggio che forse in pochi hanno compreso (sia tatuati che non): “E questo tatuaggio era stato opera di un defunto veggente e profeta della sua isola, che con quei geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria completa dei cieli e della terra , e un trattato misterioso sull’arte di raggiungere la verità. Sicché Queequeg era nella sua stessa persona un enigma da sciogliere, un’opera meravigliosa in un solo volume, ma i cui misteri neanche lui sapeva leggere, per quanto pulsassero con gli stessi battiti del suo cuore: questi misteri erano perciò destinati a sgretolarsi alla fine assieme alla viva pergamena su cui erano tracciati, e così a restare insoluti per sempre.”.
Di Martina Cotena.
