Stralci dal II Capitolo:
1939
…. Arrivarono alla stradina del Mulino, la percorsero, e si trovarono
ai piedi della scalinata che conduceva all’ingresso:
“Immensum ad antrum aditus”.
Eccolo, l’invito ad entrare. Ogni volta che leggeva quelle parole
Liana provava un brivido d’emozione, quasi una sorta di premonizione
di avventure fantastiche in quel meraviglioso regno sotterraneo.
Il trenino scoperto, trainato dalla locomotiva a benzina, era già
pronto, quasi pieno, stipato di giovani e meno giovani. Un coro di
saluti, di esclamazioni di piacere, di benvenuto.
Passarono radenti alle colate calcistiche, alle formazioni traslucide
di stalattiti e stalagmiti; nelle curve pareva, a volte, di sbatterci contro
e, nonostante la consuetudine a quel tragitto, tutto il gruppo si trovava
spesso ad abbassare istintivamente la testa, per la sensazione di urtare
quei gioielli calcarei sporgenti dalle pareti gocciolanti. Attraversarono
la Sala della Nave Rovesciata e poi la Sala Gotica e, infine, si fermarono
alla grande Sala da ballo, dalla cui volta pendeva un imponente lampadario
di cristallo; sotto la luce scintillavano le bianche concrezioni
che ricordavano un bosco cristallizzato nel gelo invernale.
Era l’ultima fermata del trenino.
La Sala da ballo era a vista. appariva già affollata. I tavolini di
ferro smaltato bianco erano disposti su tre lati; su ognuno, fiori colorati,
la cui fragranza delicata si mischiava all’odore acre di fumo e al
sentore dolciastro di profumi e ciprie. Grosse stufe elettriche intiepidivano
l’ambiente. Lampade tondeggianti illuminavano una piccola
pedana in fondo, dov’era sistemato un pianoforte bianco e l’orchestrina.
Alle quattro pareti, gli altoparlanti diffondevano la musica. Ad
angolo, tra la parete di fondo e quella laterale, si stendeva un bancone
da bar di legno, anche questo laccato bianco, alle cui spalle c’erano
gli scaffali colmi di bottiglie colorate. Camerieri in giacca bianca si
aggiravano indaffarati tra i tavoli.
Liana si guardò attorno. Le donne erano tutte in abito da mezza sera,
gli uomini in giacca e cravatta, tra la folla spiccavano molte divise……….
…………………………………………………………………………………….
………………………………………………………………………………………
«Basta, basta», lo interruppe, ridendo, Liana. «piuttosto, senti,
dopo mi suoni Jalousie?»
Gli altri orchestrali, intanto, avevano posato gli strumenti per
terra, sulla pedana, e si rinfrescavano bevendo bibite ghiacciate. Gli
altoparlanti diffondevano in sordina una musica proveniente da un
grammofono sistemato in un angolo.
Mirko rispose annuendo, distratto. Guardava con curiosità verso
un lato della sala. anche Liana volse lo sguardo, cercando di capire
cosa avesse attirato l’attenzione del giovane. Un uomo alto e grosso
era appena entrato trafelato e parlava in modo concitato
con un gruppo di ufficiali; sotto l’abito a doppio petto portava la
camicia nera.
«Che succede?» chiese Liana. Mirko non rispose. L’uomo con la
camicia nera si stava dirigendo verso la pedana dell’orchestra.
Con un gesto imperioso staccò il grammofono, facendo gracchiare
la puntina sul disco che continuò a girare a vuoto. La musica interrotta
restò per un attimo come sospesa nell’aria. Si sentiva solo il brusio
proveniente dalla folla nella sala.
«Ma…» cercò di protestare uno degli orchestrali indispettito.
L’uomo afferro il microfono:
«Attenzione, prego di prestare la massima attenzione», disse con
voce eccitata. Fece una lunga pausa. Tutti gli occhi erano volti verso
di lui:
«Pochi minuti fa l’EIAR, in edizione straordinaria, ha annunciato
che da qualche ora le truppe germaniche sono entrate in Polonia:
Francia e Inghilterra sono in guerra col grande Reich!»
Nella sala non volò una mosca. Tutti i presenti sembravano far
parte di quel bosco cristallizzato nel gelo.
«Viva la Germania!» Urlò con voce acuta un ufficiale.
«Viva il Duce!»
La sala in breve si era riempita di squadristi.
«Che succede?» bisbigliò piano Liana a Mirko.
«La guerra, Liana, la guerra», mormorò con voce tremante il giovane.
Ora tutti erano in piedi, i volti pallidi sembravano maschere di
cera. Applaudivano, rigidi e inconsapevoli fantocci animati da una
carica meccanica.
«Suona pianista, suona “Giovinezza!”» ordinò l’uomo con la camicia
nera: «Cantate, cantate tutti!»
Dal pianoforte si sprigionarono le note dell’inno e dilagarono per
la volta della Sala Bianca.
Un coro si levò tra la folla. Anche Liana iniziò a cantare a gola
spiegata, in piedi sulla sedia, col volto arrossato dall’eccitazione e lo
sguardo scintillante offuscato dalle luci. Provava un godimento infinito
a lasciare che l’allegria, la gioia di vivere, le zampillassero dal
cuore in piena libertà.
Ad un tratto sentì una stretta al polso. Bruno l’aveva raggiunta e
la tirava.
«Scendi, andiamo via!»
Fu costretta a seguirlo. Il fratello, scuro in volto, la trascinò attraverso
la sala fino al loro tavolo.
Anna era in piedi, con la giacca già infilata, pallida, tremava.
«Svelta, copriti e andiamo», ripeté Bruno.
La ragazza cercò di protestare: «Ma perché? proprio ora! E poi la
seconda parte della serata è sempre più bella, dai, restiamo ancora.»
Bruno non rispose e la sospinse con fermezza verso l’uscita.
Si scontrarono con l’uomo con la camicia nera:
«Andate già? Camerata, perché conducete via queste belle signore?»
«Mia madre non sta bene» rispose il giovane con voce dura e,
istintivamente, strinse il braccio delle due donne.
L’uomo guardò Anna. Il pallore e i due segni scuri che le erano
comparsi sotto gli occhi dovettero convincerlo.
«Peccato», mormorò. parlava a Bruno ma guardava Liana. Si scostò.
«Buonanotte, allora.»
I tre salirono sul trenino.
All’uscita dalle grotte, la città parve più spettrale del paesaggio
appena lasciato. Un nevischio sottile aveva preso a scendere lentamente;
un odore d’inverno, un tremolio di pulviscolo, cielo senza
stelle. Per le strade, nessuno, ma le luci delle case erano tutte accese.
S’indovinavano dietro i vetri mondi, pensieri, paure, voci, singhiozzi.
Senza sapere perché, Liana si sentì schiacciare dalla malinconia di
un tempo che finiva.
Anche nella loro casa tutte le luci erano accese. Dietro le tendine,
due sagome immobili.
Entrarono, accolti dal tepore della grande stufa a carbone.
Paolo era seduto al tavolo di cucina, dove le carte del ramino
erano rimaste abbandonate e rivelavano una partita interrotta bruscamente.
L’uomo, con gli occhi chiusi, si stringeva la testa tra le mani.
Danilo guardava smarrito il padre. La radio accesa trasmetteva notizie:
“… Cracovia in fiamme… trentamila prigionieri…” Bruno alzò il
volume.
«Porci!» urlò Paolo.
«Sté ziti!» supplicò Anna, facendo un segno di croce, «Anco i
muri el gan orecie. Dio vedi, Dio provvedi.»
Liana corse a chiudersi in camera. non voleva ascoltare, non
voleva capire. Voleva solo dormire e risvegliarsi nel suo mondo di
sempre. Si spogliò, si infilò tra le coperte, mise la testa sotto il
cuscino. Dal giardino, il sibilare del vento, da lontano un abbaiare
di cani…