Le Primavere di Vesna
di Ida Verrei
Incipit
“Non mi giudicare. Non devi e non puoi farlo, tu non sai.
Non mi giudicare e io ti racconterò.
Ti dirò delle mie fughe, degli abbandoni, delle attese, delle paure,
dei miei perché.
Credi al destino? Io non so se fu sogno o presagio, non so quali
segni io colsi e quali si velarono troppo in fretta.
Non mi giudicare, figlia mia, lascia che io viva le mie colpe senza
rimorsi, lascia che sia solo il rimpianto a cercarmi la notte,
lascia che quel sale liquido si asciughi senza bruciare. E i nostri
occhi di donna si incontreranno in mille risposte”.
La stazione di Genova-Brignole tremolava alla luce morente di un
giorno al tramonto. Il vento primaverile sferzava una figura sottile,
in attesa.
Un gatto le si strusciò alle gambe. La donna sobbalzò, guardò giù,
sorrise, si chinò ad accarezzarlo: «E tu? Da dove arrivi? Cosa fai
qui?» Il gatto emise un miagolìo prolungato, poi scappò via. Lei lo
seguì con lo sguardo.
Il volto liscio, levigato, non portava tracce di ferite e dolori antichi.
Solo gli occhi, opachi, appannati, raccontavano le rughe del cuore.
Ai suoi piedi, un borsone da viaggio.
La voce gracchiante dell’altoparlante annunciò il ritardo dell’espresso
proveniente da Torino e diretto a Napoli.
Sospirò.
Si guardò attorno, raccolse il bagaglio e raggiunse con passo lento
il piccolo bar con tavolini e sedie in ferro smaltato rosso.
Sedette, ordinò un caffè che sorseggiò piano, accese una sigaretta.
Volse il capo in giro. Lo sguardo assente, attraverso una nuvola di
fumo, sfiorò gli altri tavoli: una giovane madre dondolava piano un
bimbo piccolo, mentre altri due, aggrappati alla sua gonna, assonnati,
succhiavano il pollice; un uomo anziano parlava da solo, inseguiva
fantasmi, beveva birra e di tanto in tanto schioccava le labbra, assaporando
il liquido biondo che ingoiava a grossi sorsi gorgoglianti,
Uno sbaffo di schiuma si scioglieva sulle guancia rugosa e gocciolava
sul collo avvizzito; due giovani innamorati si stringevano le mani
guardandosi negli occhi.
Le ombre del crepuscolo velavano sguardi colmi di lacrime.
Il gatto, ricomparso, balzò sulla grande fioriera in pietra carica di
oleandri bianchi. La guardò socchiudendo gli occhi.
Erano le 19,30, mezz’ora di ritardo. Poi, l’annuncio che attendeva.
Sorrise, finalmente, un sospiro di sollievo.
Afferrò il borsone, corse incontro, lungo il marciapiede, alle vetture
che, sbuffando, stavano entrando in stazione. Attese che il treno fosse
fermo, poi con un balzo agile salì sul primo vagone e si tuffò all’interno,
facendosi spazio tra i corpi, passando da una vettura all’altra
in cerca di un posto a sedere.
Un uomo le cedette il suo, accanto al finestrino. Ringraziò con un
sorriso stanco.
Il treno ripartì, scivolava sulle rotaie. Guardò attraverso i vetri
Impolverati: la città con le sue case colorate di rosa si allontanava,
avvolta dall’oscurità della sera profumata di mare.
La donna si appoggiò allo schienale del sedile, sistemò la gonna
sulle ginocchia, le palpebre si abbassarono, i lineamenti si distesero, si
abbandonò al torpore che pian piano l’avvolgeva. Tutto era già stato.
Tra i ricordi, tra le memorie di una vita, per tutti, c’è un motivo
ricorrente che ne segna e scandisce le stagioni più significative.
Un’immagine, un rumore, un profumo, una vaga sensazione di déjà
vu. La percezione di un mutamento che sta per segnare la tua esistenza,
o di un ineluttabile ritorno al passato.
Per Liana era il rumore del treno. Un treno che transita, un treno che
parte, un treno che arriva o che squarcia il silenzio con il suo urlo
metallico e canta col frastuono ritmico dello sferragliare. Il treno, sempre
presente: odori, suoni, rumori, impressi nell’anima e nella mente.