Per trovarsi occorre saper morire. “L’identità è un’esperienza di morte, un’esperienza elanconica, di perdita, di lutto. Non è mai trionfante”. L’identità cercata, quella mancata, mancante se non impossibile, l’identità conquistata a fatica sapendo di doverla perdere; la parabola della vita come incessante ricerca di equilibrio tra affermazione e negazione, essere e non essere: temi affrontati da Lucio Russo, psicoanalista ordinario della Società psicoanalitica italiana, al convegno di psichiatria e psicoanalisi su Le maschere dell’identità, dissociazione e isteria organizzato tempo fa a Roma dall’associazione culturale Dialogos. Di identità negate, soppresse, trucidate, è tramata la storia: si pensi al mare nostro, il Mediterraneo, purtroppo al centro di cronache orrende, sempre più cimitero di identità. Le tante tragedie qui consumate sono tragedie di identità , oltre che “di corpi senza nome, persone venute nella nostra terra per cercare accoglienza, riconoscimento, invece negati”, secondo lo psichiatra Pietro Bria che ha introdotto la relazione. Un abisso separa queste catastrofi collettive dal comune senso, non del pudore né dell’individualità che sarebbe già un traguardo, ma dell’individualismo; senso calato in realtà comunque privilegiate, che porta a una difesa a oltranza spesso di un simulacro vuoto esibito e spacciato per essere. “L’ipseità è il più grande inganno come difesa maniacale, onnipotente. Io sono l’altro? Certo per rompere lo schema narcisistico”, dice Russo.
Il cuore dell’identità sta proprio nell’esperienza della morte, “della perdita dell’oggetto narcisistico di base”. E il sentimento dell’identità si fonda necessariamente “da una parte sull’assenza originaria da cui veniamo, dall’altra sulla maschera. Tutto il campo sociale è un ballo in maschera”. Grande teorico della maschera è stato il filosofo Friedrich Nietzsche. Si ricordi un suo celebre passo: “Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio. (…) Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà”.
In Ecce Homo l’invito del filosofo è a diventare ciò che si è. “Indicazione da tenere presente come analisti al lavoro, diventare ciò che si è e non ciò che si sarà: il livello di collegamento necessario e continuo è tra il divenire la maschera necessaria e l’essere che siamo e saremo”. Il ‘sé di base’ in prossimità del vuoto e della morte, molto più dell’io, ce lo portiamo dentro: “non c’è crescita che tenga a farci superare la mancanza da cui proveniamo”. La maschera è indispensabile purché si mantenga vitale “non perda il contatto con l’essere per la morte, la caducità da cui proveniamo e verso cui andiamo”. Anche l’esperienza del doppio diventa una grande maschera che il soggetto usa per vivere: “Freud, Rank, Bion, con il gemello immaginario hanno inteso in comune che il doppio nasca come meccanismo di difesa del riconoscimento dello straniero, il perturbante, quando l’io transita tra il narcisismo e il riconoscimento dell’altro da sé”. Secondo la psicoanalista Marion Milner citata da Russo la maschera compie una danza simile a quella del delfino che si tuffa nelle profondità del mare per poi riaffiorare in superficie. Il che sta a dire che le maschere non sono criminali “se mantengono un collegamento profondo con l’Essere, con la nostra autenticità, il sé autentico che è in prossimità della morte, sa morire, sa cosa è la morte propria e dell’altro”. L’essere è tale in virtù della propria mancanza originaria; trionfa quando si emancipa da tutti i legami e da tutte le maschere usate, sia pure in nome di Eros. Che razza di essere è mai questo? “Chi riesce a vedere il Sé autentico e a far cadere tutte le maschere è il morente. Morire è esperienza drammatica ma salvifica quando si è attrezzati a vedere tutte le maschere”.C’è una straordinaria novella di Luigi
Pirandello citata da Russo a conclusione della sua abile e concentrata rassegna fatta a braccio, si intitola Una giornata e fu scritta nel 1935 in prossimità della morte dello scrittore siciliano. Tra l’altro in piena sintonia con quanto fin qui esposto sono le ultime volontà di Pirandello che i figli scoprirono manifestate su un foglietto di carta spiegazzato: “Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. IV. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cinerari portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”.Una giornata è la metafora della vita: il protagonista che coincide con l’autore, “strappato dal sonno” si scopre “espulso” da un treno e sentendosi come un bambino, racconta la caduta di tutte le maschere e la riconduzione di sé allo stato di corpo e viso nudi. La vita trascorre sotto i suoi occhi come fosse sogno, l’Eros in forma di donna bellissima lo abbandona, già i figli nati appena ieri hanno i capelli bianchi. Espulso da un treno si ritrova in una stanza dove l’essere è ricongiunto a sé, il vecchio al bambino. “Se noi come soggetti in identità riusciamo a mantenere il contatto con le maschere siamo nell’autenticità che prende il posto del vuoto al centro, se no siamo nel simulacro di identità. Pirandello ha felicemente sintetizzato la maschera nuda”. Fino alla sua esplosione di senso nell’oltrepassare ogni genere e categoria dei viventi: “…perché muoio ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, a in ogni cosa fuori”.
Lucio Russo, psicoanalista con funzioni didattiche della Società Psicoanalitica Italiana, vive e lavora a Roma.È autore, oltre che di diversi articoli e saggi, dei libri Nietzsche, Freud e il paradosso della rappresentazione (Roma, 1986), L’indifferenza dell’anima (Borla, Roma, 20022), Le illusioni del pensiero (Borla, Roma, 20062) e I destini delle identità (Borla, Roma, 2009).
Per le Edizioni Borla ha inoltre curato il volume Del genere sessuale (Roma, 1988, con M. Vigneri) e l’edizione italiana de La scorza e il nocciolo, di N. Abraham e M. Torok (Roma, 1993). Sempre per Borla ha pubblicato il più recente lavoro (2013) Esperienze - Corpo, visione, parola nel lavoro psicoanalitico.