Mettere insieme tutti gli elementi citati nel titolo sembra compito ostico ma, seppur in anni differenti,
la settimana tra il 5 ed il 10 dicembre trova segnati due avvenimenti risultati pietre miliari nella carriera di questo “multiforme ingegno” che è Dario Fo. Il 5 dicembre 1970 fu il giorno in cui
debuttò a Varese con la sua compagnia “la Comune” nello spettacolo “Morte accidentale di un anarchico”. Erano gli anni di piombo della Repubblica Italiana che ancora stava brancolando nel pieno di
quanto il movimento del ’68 aveva importato e fatto esplodere. Scontro aperto a tutto tondo sul piano dello studio, del lavoro, delle libertà, con errori, quelli grossolani, di chi, da entrambe
le parti, per rabbia, esasperazione ed anche impotenza, tenta di imporsi sull’altro. In questo clima anche una tra le espressioni artistiche più immediate, il teatro, si trovò catapultata sul
ring della lotta civile e molti, tra cui Dario Fo e la compagna di vita e d’intelletto, Franca Rame, fecero la loro scelta. Ecco dunque la messa in
scena di “Morte accidentale di un anarchico” esplicitamente da riferirsi all’episodio dell’anno precedente,
occorso all’anarchico Giovanni Pinelli che, in merito alle indagini sulla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), durante un interrogatorio presso la Questura di Milano, il 15 dicembre 1969,
cadde dalla finestra dell’ufficio della Questura di Milano ove si trovava, trovando la morte. Il fatto scatenò una feroce polemica ed esasperò ulteriormente gli animi ed a nulla valse il
successivo processo che, conclusosi decretando che la causa della morte era da riferirsi ad un “malore attivo”, lasciava aperta una congerie di dubbi mai risolti fino a fondo, oltre alla
conseguenza diretta dell’omicidio, stavolta esente da dubbi, del commissario Calabresi, titolare delle indagini su Piazza Fontana, l’anno successivo.
La messa in scena dello spettacolo scatenò una dura serie di polemiche e di attacchi che si concretizzarono in oltre
quaranta processi tanto che Fo si trovò costretto a trasferire i luoghi dell’ambientazione scenica, dall’Italia negli Stati Uniti dove, analogamente a Pinelli (analogamente come dinamica della
morte, non sulle non accertate cause ovviamente, in quanto non ne conosciamo i dettagli), nel 1920, esattamente il 3 maggio, un anarchico italiano, Andrea Salsedo, cadde dal quattordicesimo piano
degli uffici della FBI, dove si trovava per un interrogatorio, trovando la morte, morte che venne etichettata come suicidio. Lo spettacolo, ad ogni buon conto, narrava della storia di un “matto”
o meglio di un presunto tale che, trovandosi nei locali della Questura per essere interrogato circa i suoi comportamenti quanto meno bizzarri e discutibili, riesce a coinvolgere i presenti in una
serie di avvenimenti tali che, attraverso esilaranti situazioni, fanno emergere le incongruenze della realtà. Nella fattispecie, la morte dello stesso avvenuta per una defenestrazione durante un
momento di black-out per il quale nessuno può accorgersi di cosa stia accadendo, servirà ad insinuare il dubbio su quanto accaduto durante la vicenda agli occhi di una giornalista presente ai
fatti. L’impegno politico di Dario Fo non è mai venuto meno nel prosieguo della sua carriera, mentre sono con il tempo, cambiati i modi della sua
satira che è andata sempre più approfondando nei temi e nelle radici della cultura e della storia, in particolare per la ricerca, l’utilizzo e l’affinamento del linguaggio onomatopeico.
Saranno numerose infatti, negli anni a seguire, le Università che gli concederanno la laurea “honoris causa” fino a che, il 10
dicembre del 1997, riceverà il Premio Nobel per la letteratura con una giustificazione invero alquanto ambigua, quanto meno nella sua probabilmente infelice trasposizione italiana che così
recita: “.. Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi…”. In primis perché tale
giustificazione non evidenzia le qualità letterarie che avrebbero dovuto portarlo al ricevimento del premio e poi perché una duplice lettura è possibile nella motivazione stessa ovvero che la
dignità degli oppressi sia stata restituita in virtù del gioco del giullare e non di ben altri e più importanti accadimenti, suonando pertanto più come una sorta di ironico e velato ammonimento
all’allora governo italiano (a rischio dunque di gaffe diplomatica) che non ad un potere in senso storico, contro il quale effettivamente Fo si era sempre battuto come intellettuale. Il percorso
di Fo era infatti iniziato nel 1968, quando emerse nel panorama del teatro italiano con “Mistero buffo”, spettacolo del 1969, dove i modi
giullareschi del teatro dell’arte, unitamente alla reinvenzione linguistica di un linguaggio fortemente onomatopeico detto “grammelot”, aprì la
strada ad uno studio sulla cultura popolare che lo accompagnerà per tutta la sua produzione ad eccezione di pochi e rari casi come l’allegoria anarchica di Pinelli, all’interno della quale,
comunque, proprio un matto, quel matto che poteva benissimo essere il giullare di turno, porterà se non al disvelarsi della verità (almeno quella
teatrale) quanto ad intravederla.
“Mistero buffo” aveva
tuttavia aperto ben altre strade che in particolare consistevano nell’utilizzo del giullare quale relatore e strumento per esaminare i fatti importanti della storia, religione compresa,
effettuando un ribaltamento della prospettiva per cui li grandi avvenimenti e gesti verranno visti con l’occhio di chi – quasi sempre – li subisce e
non di chi li opera. Sarà il giullare infatti che con la satira e lo sberleffo, rivisiterà drammi, morale, dogmi e grandi verità. Passerà al setaccio impietosamente i grandi poteri, compresa la chiesa ed in particolare i suoi ministri contro i quali Fo avrà sempre
un particolare occhio di riguardo volendo, nella sua giullaresca visione della storia, additarli come coloro che probabilmente, più di ogni altro si sono prodigati nell’esercizio del potere,
disdegnando sovente etica, moralità ed incedendo a violenza e crudeltà, con ovvio scapito di tutte le categorie sociali che non fossero in primis il clero stesso e dopo la nobiltà. Ma il percorso letterario esula entro certi termini dagli obiettivi politici e la ricerca che spesso si concretizza in entusiasmanti monologhi, diviene affresco
storico che gode più che mai di questo duttilissimo strumento che è divenuta l’onomatopea estrema, unita alla gestualità corporea che, unitamente, risulteranno istintivi mezzi di una
comunicazione che avrà toni sanguigni, forti, ma che sempre porteranno non alla risata crassa degli sciocchi quanto all’acume del sopravvissuto. In questo contesto, con questi attributi, che si
sono aggiunti a quanto già patrimonio del teatro ed in particolare del teatro dell’arte che gode di ben più ampia libertà che con quella dei canoni stilistici del teatro di classico o di maniera,
Fo ha potuto portare all’estremo la sua sperimentazione che, con gli anni, per mantenere lo spessore culturale di interprete della tradizione storica popolare italiana è divenuta asse portante di
una indimenticabile serie di spettacoli come “Johan
Padan a la descoverta de le Americhe “, “Lu santo jullare Francesco”, “Il tempio degli uomini
liberi” e delle lezioni di storia del teatro prodotte con Giorgio Albertazzi, con le quali probabilmente il percorso
culturale ha raggiunto il suo momento di sintesi e di apertura a nuove e più specifiche indagini. In conclusione dunque tra il 5 dicembre 1970 ed il 10 dicembre 1997 si è compiuta la crescita di
un artista, che attraverso una forma di satira, quella del giullare, che dai toni anche istintivi ed eccessivamente passionali è divenuta nel corso del tempo, ancora più efficace poiché
arricchita di conoscenza, di consapevolezza e di storicità al punto da costituire oramai patrimonio del teatro italiano.
Al piede di questo panegirico un altro inserto ripreso da “Mistero Buffo” che tanto, tanto mi assomiglia a numerosi,
ripetuti e reiterati interventi del nuovo “grammelot” che oggi spopola in rete, quello dei “guru digitali”, che ci informano su come sarà il futuro nostro e, più che altro, il loro.