Sulla Stampa, quotidiano di Torino, esiste una rubrica che si chiama “Specchio dei tempi”
Su questa rubrica, la gente scrive le sue lamentele e la redazione pubblica (non so se pubblica tutto o se applica dei filtri).
Ho trovato questa lettera datata 31/1/1956 ed è interessante notare come, nonostante gli anni passati, la storia si ripete. Evidentemente il mio pensiero che la storia è un ciclo destinato al ripetersi non è poi tanto sbagliato.“Sono una sartina torinese, una delle tante caterinette, che durante le sfilate di moda si sentono chiamare artiste ed elogiare per l’innato buon gusto, la capacità, la pazienza, ecc. Il proverbio dice che non si vive di solo pane ma è anche vero che non si vive di solo elogi.
Le nostre paghe sono tra le più basse, non compensano la fatica e la perizia che il mestiere richiede.Prima di ottenere il diploma di lavorante, dobbiamo compiere un lungo tirocinio, e dopo averlo ottenuto, ci accorgiamo che è aumentato il lavoro, ma non il guadagno.In qualche laboratorio, le sartine sono soggette a una disciplina più rigida di quella dei colleghi: vietato parlare, vietato canticchiare, vietato alzare la testa dal pezzo di stoffa che si ha fra le mani. Se un malessere costringe una sartina a sospendere il lavoro per mezz’ora, l’involontaria sosta viene decurtata dal salario. Non i tutti gli ateliers vige un rigore così assoluto: ma non mancano i padroni che fanno pagare dalla sartina l’ago che spezza cucendo a macchina.Ma la vera causa del malcontento della categoria è un’altra. Molti laboratori o negozi di confezioni, per sottrarsi all’onere dei contributi assicurativi e per ingannare il Fisco, affidano la maggior parte del lavoro a esterne, cioè a donne che lavorano a domicilio e che non sono iscritte ai sindacati. Così queste donne si guadagnano la giornata, i loro mariti incassano gli assegni familiari e noi per 5 o 6 messi all’anno siamo costrette a starcene a casa per mancanza di lavoro.
A chi ci incontra sotto i portici di via Roma, quando alla sera usciamo vispe e sorridenti dagli ateliers, revochiamo la Dorina di Addio, giovinezza! E allo studente che ci invita a ballare, durante la festa delle caterinette, ricordiamo i bei tempi del romanticismo, dei brindisi col bicchiere colmo d’acqua fresca, delle soffitte che un vaso di geranio bastava a trasformare in un salotto:Ma è soltanto un’illusione: le Dorine di quaranta anni fa vivevano di sogni, di lunghe veglie al lume dell’abat-jour e di interminabili passeggiate al Valentino. Un lusso che oggi non ci possiamo permettere, dato il prezzo dell’energia elettrica e delle risuolature alle scarpe.”.
Una sartina: Pinuccia S.