Eravamo tutti lì. C’eravamo dati appuntamento per condividere una giornata storica, quasi per riviverla dopo decenni di libri scritti e storia letta, tramandata, studiata.
La piazza ci aspettava quasi vuota, un giorno come tanti, nessuno avrebbe fatto caso a poche decine di persone, ferme ad ascoltare una banda seguita da rappresentanti in uniforme. Eravamo lì per testimoniare la riconoscenza nei confronti di chi ha dato la vita per la nostra vita, per la nostra libertà e per il nostro presente. Noi non saremmo qui se migliaia di uomini non avessero lottato per liberare non solo i luoghi, ma soprattutto le menti. Quegli stessi uomini sono morti per questa giusta causa, ma in piazza, al di là delle apparenti e fredde cerimonie, il senso del cordoglio e del rispetto alla memoria non si respirava affatto. Abbiamo atteso sino alla fine l’intonazione di quelle note: “Bella ciao”. Un inno che avrebbe dovuto, invece, diffondersi forte e ripetutamente sin dall’inizio, come testamento storico-musicale di un movimento che nell’Europa del ’45 culminò nelle lotte partigiane e negli ideali che avrebbero sconfitto definitivamente l’oppressione fascista e nazista.
Quello che abbiamo visto noi voleva dire: pura formalità. Quello che ho sentito io è stato immenso, intriso di emozione e di commozione: un uomo, alla fine della cerimonia, spinto da una delusione senza pari, si è avvicinato ad alcuni di noi mostrando una foto, la sua, di molti anni fa. Era un figlio sopravvissuto dell’Italia fascista: senza voce e con gli occhi lucidi, faceva parlare quella foto, il suo nome su un documento d’identità, un nome che non è sulle lapidi fotografate e onorate da corone di fiori, ma un nome ancora palpitante, pronto a dirci che in quella piazza non eravamo noi a dover testimoniare, ma le storie di persone come lui, pronte a raccontare, a raccontarci il percorso di una vita che è arrivata fino ad oggi, che ha inciso la storia consegnandole la forza ed il coraggio per difendere quella libertà conquistata a così caro prezzo.
L’ho guardato senza parlare. Gli avrei dato un microfono, avrei chiesto il silenzio attorno e sarei stata ad ascoltarlo, io con tutti gli altri che erano lì con me. Ma ha rimesso il documento in tasca, si è alzato il bavero della giacca e si è allontanato.
Cos’altro poteva fare? Io avrei voluto chiedergli scusa, per l’insensibilità, l’indifferenza alla sua vita, al suo dolore, avrei voluto dirgli “grazie” per esserci stato.
L’ho visto andare via: il senso di questa giornata mi è rimasto dentro, insieme con il suo ricordo e col ricordo di un 25 Aprile che, ormai ingiallito su giornali e video, possiede per chi ci ha creduto e ancora lo comprende, il senso attualissimo, mai passato, della storia di cui siamo, tuttora, protagonisti. Ricordiamocelo, vi prego.