Magazine Cultura
Lo lessi in francese, in quarta elementare, ascoltata con attenzione da S.
Ero isolata dal resto della classe per due fondamentali ragioni:
- Venivo dalla Svizzera
- Ero stronza
Parlavo male, mi inceppavo come una balbuziente su parole che ritenevo difficilissime; "calpestare" o "raccogliere". Ero vista dalle mie compagne così come il popolo dei Minimei vede un essere umano strano. O forse ero io la Minimea e loro gli umani, questo ancora lo devo capire.
A metà anno scolastico la Preside chiamò mio padre, era martedì mattina, l'ora della ricreazione. Avevo strattonato uno dei tanti Minimei: C.
L'avevo preso per il colletto del grembiule e l'avevo scaraventato per terra. Poi con i miei stivali di gomma bianchi, l'avevo preso a calci e calpestato.
Non senza motivo: volevo sedermi al posto suo, vicino a S.
S. era un bambino strano e intelligente, doveva diventare il mio compagna di banco. Era taciturno e non portava mai la merenda.
Io sapevo che avrebbe capito la Nemirovsky.
Dopo il colloquio con la Preside successero alcune cose che ancora non ho ben chiare. Ricordo che i miei mi tennero a casa un giorno, che mio padre non andò a lavorare e che passò tutta la mattina seduto sul mio letto come quando avevo la febbre. Mi fece discorsi sulle guerre civili in Africa, sull'amore fraterno, sull'importanza del dialogo tra i popoli di cultura diversa.
Quando tornai a scuola, il giorno dopo, il posto vicino a S. era libero e la maestra mi disse di sedermi là. Mi diede una carezza, mi rivolse un sorriso, ed io provai per la prima volta vergogna vera. Di quella che ti mangia le budella e che ti fa digrignare i denti. Mi sentivo in colpa come non mai. Non meritavo quel posto, né S., né la gentilezza dell'insegnante.
S. diventò il mio amico e a me un giorno, a carnevale, vestita da Rossella di Via Col Vento, venne voglia di baciarlo.
Provai prima chiedendogli la gomma da cancellare, poi facendogli assaggiare un po' del mio panino con la Nutella. Ma Rossella era Rossella, io ero io e non sarei mai riuscita a prendermi ciò che volevo provando a raggirarlo con scuse che risultavano inefficaci.
Passarono mesi, le vacanze estive, ma la mia voglia del bacio non si esaurì. A settembre, quando riprese la scuola, S. era più alto ma ancora introverso e senza merenda. Il mio odio nei confronti di tutti gli altri compagni era cresciuto. La pausa estiva aveva indebolito la mia già approssimativa scioltezza linguistica, infilavo parole francesi là dove mi mancavano quelle in italiano. Mi vantavo comunque con tutti i miei compagni asserendo di esprimermi come una nobile russa ottocentesca. Questo fece di me una vera star, e il mio fascino agli occhi delle mie compagne di classe crebbe, insieme all'invidia del mio fisico e dei miei lunghi capelli biondi.
S., però, ne sembrava immune. A lui piacevano di me, elementi e fattori del tutto trascurabili, tipo la mia velocità nel risolvere le divisioni a due cifre o la punta dei miei pastelli.
S. voleva che temperassi le matite dentro al suo astuccio, per conservare i trucioli che gli piaceva annusare. Lo trovavo feticista, quindi sempre più interessante. La voglia del bacio era stata rimpiazzata da quella di uscire con lui in bicicletta. Un po' per mancanza di alternative, un po' per stratagemma.
Una domenica pomeriggio lo invitai a casa mia chiedendogli di portare la bici. Sua madte lo accompagnò puntuale alle quattro, e lui si presentò con un mazzo di carte e i quaderni per fare i compiti. Piansi tanto, quella notte.
L'anno scolastico giunse presto al termine, non avevo avuto il mio bacio e dovevamo tornare in Svizzera. Passammo gli ultimi giorni in Italia a fare giri turistici, Firenze, Venezia, Roma, Napoli, e la casa di S. Era la prima volta che mi invitava. Era luglio, faceva caldo, ed io andai a casa sua in bicicletta, scortata dalla tata. Ci sedemmo sul suo letto piegando la testa, essendo il piano inferiore di un letto a castello. Mi fece vedere il suo libro sullo spazio; parlandomi dei buchi neri si confuse e annaspò avanti e indietro tra le pagine del libro in cerca del concetto che non era stato capace di spiegarmi. A me, a quei tempi, non fregava niente dei buchi neri. Neanche dello spazio. A me interessava capire come funzionava il bacio, ed S. per quanto goffo e taciturno, mi piaceva veramente tanto.
Ci salutammo in presenza dei nostri genitori, facendo gli indifferenti, come se l'addio fosse un onere che non doveva appartenerci.
- Io avrei voluto darti un bacio, quella volta dei buchi neri.
- Veramente io lo aspettavo da un anno, quel bacio.
- E se ce lo dessimo adesso?
- Troppo tardi, adesso i buchi neri mi interessano.
- Invece a me la Nemirovsky non mi ha mai interessato.