Questo è, in sintesi, lo scenario davanti al quale mi sono trovata nel leggere il libro Il bambino della Casa numero 10. La Casa numero 10 è la struttura che lo ha ospitato e lui è uno dei tanti bambini abbandonati nella Russia di quegli anni.
Non si tratta di un romanzo ma di una storia vera. Uno degli autori è lui, John Lahutsky (Vanja nella sua Russia, John nella sua terra d'adozione) e dedica il libro ai bambini che non ce l'hanno fatta e che, mi par di capire che siano stati tanti.
Nella prefazione, a firma dello stesso protagonista, John dice:
Ciò di cui sono stato testimone nei luoghi della mia detenzione è visto attraverso i miei occhi, tuttavia gran parte della storia è narrata da due persone che mi sono molto care: Vika, una giovane donna russa che ha dedicato mesi e mesi della sua vita nel tentativo di salvarmi, e Sarah, cui non ho dato pace finchè non è riuscita a darmi la possibilità di sfuggire ad un sistema assassino.In effetti la narrazione vede alternarsi più voci, una serie di testimonianze che si sommano, si accavallano in modo estremamente ordinato e preciso, con dettagli capaci di far rabbrividire.
Ho letto il libro con una certa lentezza perchè non è stato facile accettare che quanto veniva raccontato potesse essere realmente accaduto. Tra una pagina e l'altra sono anche stata tentata di cercare in rete qualche informazione in più sugli orfanotrofi russi, sulla condizione dei bambini abbandonati dalle madri, sulle adozioni internazionali e sui meccanismi che si possono innescare per mettere i bastoni tra le ruote a chi volesse salvare uno di quei bambini condannati alla detenzione a vita in un lettino con sbarre di ferro. Non è una lettura pesante ma dolorosa.
Ho sofferto nel nel leggere la storia di Vanja ed ho ammirato l'istinto vitale di quel bambino che, ad un certo punto della sua vita, era stato ridotto ad un fantoccio.
Era questa la logica mostruosa dell'assistenza pediatrica sovietica. I comunisti avevano esautorato la famiglia, decretando che era lo stato a doversi prendere cura dei bambini destinati a non diventare forza lavoro; il che, di fatto, voleva dire segregarli e nasconderli agli occhi della società, privandoli di qualsiasi contatto con la famiglia, dell'istruzione e delle cure mediche. L'avvento del capitalismo aveva poi permesso a pochi privilegiati di fuggire all'estero. Se c'era la possibilità che un bambino potesse essere "esportato" e che un'agenzia specializzata in adozioni internazionali ci guadagnasse su, si provvedeva a curare il piccolo in ospedali che altrimenti gli sarebbero stati preclusi. A quel punto i dottori russi facevano del loro meglio per trasformare "merce scadente" in un prodotto di qualità esportabile.Ciò che ho pensato è stato come fosse possibile che i trattamenti riservati a quei bambini non fossero denunciati come vere e proprie violenze... La mia è stata la stessa reazione che, credo, avrebbe avuto chiunque non conoscesse i meccanismi in atto in Russia in quell'epoca.
Mentre osservavo le membra scheletriche di quell'emaciato bimbo di sei anni, cercavo di immaginare come avrebbe reagito un estraneo che non fosse al corrente del funzionamento dell'assistenza sanitaria fornita dalla Russia all'infanzia abbandonata. L'ipotetico estraneo si sarebbe stupito di constatare che nessuno degli esperti, seduti attorno al tavolo da tè, prendeva il telefono e chiamava la polizia per denunciare un grave caso di maltrattamento ai danni di un minore. Al contrario, tutti i presenti sapevano benissimo che il modo in cui Vanja era stato trattato veniva considerato accettabile dallo stato e assolutamente legale. Negli istituti gestiti dallo stato la colpa delle proprie deplorevoli condizioni era sempre del bambino: era colpa sua se era malato o idiota. Non solo: secondo il punto di vista ufficiale, le istituzioni non sbagliavano mai. In compenso, tutti noi avevamo un'opinione diametralmente opposta: era il sistema a ridurre il bambino intelligente a un invalido scheletrico.La mia reazione è stata proprio quella dell'estraneo a cui si fa riferimento a pag.182 del libro ed ho reagito così solo leggendo la storia di Vanja, figuriamoci se fossi stata testimone diretta delle sue condizioni come lo sono state Vika e Sarah.
Un ultimo stralcio e poi credo che non serva dire altro:
Sarah era sconvolta: "Quello che accade in questi orfanotrofi è criminale. Accolgono i bambini prematuri e li trasformano in storpi. Invece di incoraggiarli a camminare impediscono loro di muoversi. Li confinano nei lettini o in girelli legati al box, dove restano immobili con le gambe ripiegate sotto il corpo".Nel leggere i tanti ostacoli che si sono presenti ed il lungo lasso di tempo che è stato necessario per strappare Vanja a quella terrificante struttura ammetto di essermi innervosita, indignata, intristita, commossa... ma alla fine l'epilogo fa riapparire un barlume di fiducia... Vanja ce l'ha fatta, ma quanti sono stati i bambini che, invece, non sono mai usciti da strutture come la Casa numero 10 se non in una bara?
E' un libro che consiglio di leggere per riflettere... e per apprezzare ancora di più la vita. Più di quanto ognuno non faccia già.
L'ho comprato in occasione di una vendita di libri a peso per 2,55 euro e si tratta di una toccante testimonianza che non risparmia dettagli così come non si risparmia di dispensare emozioni.
E' uno di quei libri che, senza dubbio, non dimenticherò.