Lui ha otto anni. L’ho conosciuto a Kabul – se si può conoscere un bambino mummia.
Ha preso in mano un ordigno con ogni probabilità piazzato dai talebani, è esploso. Nell’altra corsia un suo coetaneo aveva una pallottola in testa, sparata dall’esercito afgano.
Oggi in ospedale abbiamo le vittime delle bombe americane.
Fa qualche differenza, quando sei un bambino mummia, chi ti ha sparato? Muori di meno, se ti sparano “i buoni”? Ti ricrescono le mani, se chi ti ha colpito era “dalla parte giusta”?
In guerra tutti i combattenti si sentono dalla parte giusta. E anche al di qua dell’oceano tutti si sentono dalla parte giusta, pronti a sparare giudizi, insinuare, giustificare.
Alla fine della giornata, però, l’unica cosa che rimane di tutto questo mare di parole è lui e quelli come lui. E il personale che lo cura. E una famiglia che piange.
Questa è la guerra. E per quanto possiate imbrogliare con le parole, i distinguo e i “purtroppo”, rimane questa roba qua. Ha questa faccia qui.
Toglietele bende, se avete coraggio. Dai suoi occhi e dai vostri, possibilmente.
Sono queste le parole che Cecilia Strada, presidente di Emergency, ha usato in un suo post su Facebook per raccontare la storia del bambino immortalato nella fotografia. Un’immagine che ci mostra la guerra in tutta la sua drammaticità, una guerra dove per le vittime innocenti non ci sono “buoni e “cattivi”, ma solamente paura e dolore.