- Flesh n’ bone by Valeria Chatterly Rosenkreutz -
Il becchino
di Iannozzi Giuseppe
Per tutta la vita ho messo a dormire cadaveri. Il posto di becchino me lo ha lasciato in eredità mio padre. Sin da piccolo ho visto più morti che vivi. Mi tengono compagnia i corpi morti, anche quando sono orrendamente sfigurati. Con la gente viva cerco d’intrattenere relazioni di pura formalità e comunque sempre nel minor numero possibile. Non amo parlare, preferisco pensare. Qualche volta può capitare che scriva degli appunti, che dimentico ora sù una tomba scavata di fresco ora nei pressi del forno crematorio.
Ho avuto una vita lunga senza acciacchi; a ottanta anni sono arzillo come lo ero a quaranta e la morte non la temo. Ho sotterrato migliaia di uomini scavando la terra con la sola forza delle mie braccia. Una volta in una bara che tu sia stato un Ercole o un colletto bianco non fa più differenza: i cadaveri puzzano tutti allo stesso modo e imputridiscono con uguale velocità. I parenti che partecipano ai funerali piangono il caro estinto con il terrore in petto che presto stessa sorte toccherà anche a loro. Io non provo niente né per chi fu giovane né per gli altri. Quando la Nera Signora reclamerà la mia testa le offrirò il mio collo in silenzio. Nel frattempo continuo a svolgere il mio lavoro.
La gente crede che i fantasmi infestino i cimiteri soprattutto di notte. Nessun spirito. La notte è buia o illuminata da uno spicchio di luna e da qualche pallida stella.
Ho riesumato anche dei cadaveri perché così mi è stato chiesto da chi al di sopra di me e l’unica seccatura è stata quella di dover poi ricomporre la salma nella bara. Quando gli organi di un corpo cessano di funzionare a dovere il meccanismo che è l’uomo muore punto e basta. Ho cambiato molte lampadine, sono facili a fulminarsi: basta uno sbalzo di corrente e il filo di tungsteno si brucia spezzandosi per sempre. Una lampadina bruciata non si ripara. Così è l’uomo una volta che il suo cuore si ferma.
Non ho un figlio, sono stato io a non volerne uno, un erede. Da giovane amavo andare a donne, come tutti del resto, e una volta temetti sul serio d’averla messa incinta la mia compagna del momento. E’ stata quella la sola volta che ho sudato freddo. Per mia fortuna la tipa ebbe un ritardo delle sue cose, un ritardo di due settimane che non mi lasciò chiudere occhio.
L’altro giorno una giovane madre ha pianto a lungo sulla tomba fresca del suo bambino morto a due anni per via d’una meningite fulminante. Ne ho viste davvero tante di donne piangere sulle tombe dei figli e tutte gridando isteriche contro il cielo, “Dio, perché? Potevi prendere me e non lui! Perché… perché?”.
La donna piangeva, ma non invocava Dio. Di primo acchito pensai che fosse atea. Dovetti ricredermi, notai difatti che al collo teneva una catenina d’oro con un bel Crocifisso grosso.
La avvicinai.
“Mi spiace”, le dissi con un filo di voce.
“No, non è vero. Lei vive tra i morti…”.
Feci un cenno d’assenso col capo: “Vado via allora”.
“Dio è malvagio, ne sono convinta”.
“Porta la croce di Gesù Cristo però…”.
“Ha sacrificato suo Figlio per niente e continua a sacrificare anime innocenti perché si invochi sempre più forte il suo nome. La croce mi ricorda che è lui l’unico responsabile del mio dolore”.
“Lei bestemmia”.
“L’ho forse offesa? Anche se fosse…”.
“Niente affatto”, la rassicurai subito. “Il cielo è vuoto nonostante le stelle e i pianeti, in questo credo”.
“Strano sentire una cosa del genere da uno che fa il becchino”.
“Un lavoro come un altro e con poche noie”.
La donna si asciugò le lacrime con un fazzoletto, ma gli occhi seppur aridi continuavano a esprimere dolore.
“L’ho sepolto io suo figlio… meningite… così mi hanno detto”.
“E’ crudele, Dio”. E così dicendo esplose in una breve risata isterica. “Grazie”, aggiunse dandomi le spalle.
“Ho fatto solo il mio lavoro. Ma io qui sono un dio in terra”, mormorai. La giovane madre finse di non aver sentito. Si lasciò ingoiare dal buio del cimitero.