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Il beethoven discreto

Creato il 17 giugno 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia
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beethoven_zaoui (1)di Giancarlo Zaffaroni

C’è un Beethoven discreto, intimo e riservato, complementare a quello più conosciuto, che si manifesta in particolare nei quartetti per archi degli ultimi cinque anni della sua vita (1770 – 1827), anni dominati da sordità, difficoltà finanziarie, misantropia e dolori famigliari. La fisionomia di questi quartetti non è indifferente al male di vivere ma ne è indipendente, smentendo l’aneddotica più volgare. Sono un diario intimo, una costellazione di personaggi unici e sfaccettati costruiti con

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materia densa come la sostanza cosmica primigenia (Quirino Principe). Tre esempi molto distanti fra loro, con invito all’ascolto, sono la Canzona di ringraziamento del quartetto op. 132, estatica e rivitalizzante, la Grande fuga op. 133 cataclisma sonoro che mostra resistenza e flessibilità della forma, e il finale dell’ultimo quartetto op. 135, dove Beethoven annota il misterioso dialogo: “La decisione difficile: Dev’essere così? Sì, dev’essere! Dev’essere!”. L’attenzione per la discrezione viene dal libro di Pierre Zaoui, che rintraccia le origini dell’idea nel pensiero di san Tommaso sull’umiltà, nell’apologia dell’abbandono di Meister Eckhart e nella bellissima cosmogonia del tzimtzum di Issac Luria, dove il divino si contrae per fare posto al mondo. Il concetto evolve e si rafforza nella città moderna della folla anonima e incognita (Baudelaire secondo Benjamin), reinterpretando Pascal, nella lettura che Heidegger fa di Meister Eckhart, subisce l’attacco del totalitarismo essendo strumento essenziale di ribellione (Arendt). Secondo Zaoui la discrezione è arte più politica che morale, poiché la morale la definisce nei termini negativi di continenza e buona educazione, mentre in termini positivi è creare, dare, amare, lasciar essere. La discrezione è totalmente sovversiva nella nostra società di visibilità patologica, precondizione di ogni coinvolgimento politico serio. Con le dovute cautele riguardo alla collocazione temporale, si possono individuare tre elementi della discrezione di Zaoui applicabili a Beethoven.

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Arte come esercizio – Zaoui recupera dal pensiero di Maurice Blanchot l’idea estrema di arte come scomparsa: scomparsa dell’autore dietro l’opera; dell’opera stessa poiché importa più il processo del risultato; dell’arte verso la non-arte, perché essa è presente solo col suo dissimularsi e sparire. Arte come esercizio, concetto che accomuna Kafka e Valèry secondo Zaoui. Il quartetto è una forma usata come esercizio di studio di armonia e composizione, e per intrattenimento domestico. Beethoven usa questo strumento minimo per indagare in modo originale e potente le possibilità estreme della musica fuori dal tempo, in modo sempre contemporaneo dice Stravinskij.

Grigio su grigio – Zaoui mette insieme Hegel, Deleuze e Guattari nell’amore per dipingere grigio su grigio come metafora del pensiero filosofico. Hegel, contemporaneo di Beethoven, dice di non rimpiange nulla degli ori e dei colori del passato, un’arte del bello che non ha più nulla da dirci, ama il grigio, la secchezza del concetto, la riduzione di ciò che appare variopinto a ciò che scompare nella propria verità. Beethoven, dopo le apoteosi sinfonico-corali della nona sinfonia e della Missa solemnis, si ritira nella monocromia delle mezze tinte, conclude la propria creatività con un genere raffinato e ammantato di discrezione, quasi reticente, dove la densità del pensiero musicale è in proporzione inversa ai mezzi timbrici impiegati e al numero di voci (Q. Principe).

Poetica della rinuncia – Principe individua in Beethoven una poetica della rinuncia: scelta o destino, il rinunciare è in Beethoven un triforme male di vivere: è rinuncia ai ritmi naturali della giovinezza, alla felicità delle relazioni affettive e della vita famigliare, e infine alla facoltà di ascoltare la musica, soprattutto la propria. Zaoui cita spesso Kafka e in particolare: chi rinuncia al mondo deve amare tutti gli uomini, perché rinuncia anche al loro mondo. Comincia perciò a intravedere la vera natura umana, che non si può altro che amare, a condizione di avere la sua stessa dignità.

Fare filosofia oggi, dice Zaoui a se stesso, è rinunciare all’apparire per pensare lo spirito del tempo che si trova nella scomparsa. La conclusione del suo libro, che condivido completamente, è che “dobbiamo sostenere con forza che le anime discrete sono le fondamenta del mondo: senza di esse non esiste più nulla, solo specchi vuoti; senza di esse più nulla tiene, solo materie senza forma. E il giorno in cui anime simili scompariranno del tutto, non più ciclicamente come piace loro fare, ma in modo definitivo, schiacciate da un mostruoso sistema di onnivisibilità, il giorno dunque in cui ci saranno soltanto luce e casse di risonanza, e non occhi in disparte e orecchie impersonali all’ascolto, possiamo scommettere che non ci sarà più nessuno, e nemmeno nessun mondo”.

Giancarlo Zaffaroni

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Cover Amedit n° 23 – Giugno 2015 “Il ragazzo dagli occhi di cielo” by Iano

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 23 – Giugno 2015.

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