Il Bello e il Vero: ma era necessario?
Creato il 15 dicembre 2014 da Marianocervone
@marianocervone
Se il Forum
Universale delle Culture a Napoli è stato fondamentalmente un flop, con eventi e progetti annunciati e mai
realizzati, la mostra Il Bello e il Vero,
fino al prossimo 31 Gennaio 2015
presso il Complesso Monumentale di San
Domenico Maggiore, è senza dubbio una piacevole e rara eccezione.
Realizzata con il patrocinio dell’Unesco,
Ministero dello Sviluppo Economico, Regione Campania e Comune di Napoli, è dalla partnership con Databenc, Distretto ad Alta
Tecnologia dei Beni Culturali, che trae probabilmente la sua linfa vitale.
L’esposizione infatti si caratterizza per la sua forte impronta tecnologica e, per certi aspetti, avveniristica: alleato
dello spettatore, infatti, lungo un percorso espositivo che confronta la
scultura neoclassica partenopea dell’800 e quella del primo ‘900, un’app, che è possibile scaricare
gratuitamente sul proprio smartphone, anche dal sito ufficiale, in grado di
riconoscere le opere esposte, e mostrare per ognuna una scheda più o meno
dettagliata e ulteriori fotografie delle stessa.
Nelle sale trovano posto anche degli innovativi
ologrammi tridimensionali di alcune
delle opere, che offrono ai visitatori una suggestiva visione a
trecentosessanta gradi.
A sfilare, negli ampi spazi del Chiostro di San
Domenico Maggiore, i più grandi artisti italiani di fine secolo, da Vincenzo Gemito ad Achille d’Orsi, da Giovan
Battista Amendola a Raffaele
Belliazzi, da Francesco e Vincenzo
Jerace a Costantino Barbella, da
Filippo Cifariello a Giuseppe Renda: marmi, bronzi, gessi,
busti e statue a tutto tonto, contornati da grandi televisori touch-screen, per scoprire anche la storia dei luoghi
del capoluogo partenopeo come la Villa Comunale, Piazza Dante e tanti altri,
che si fanno scenari virtuali à la Google Maps, con informazioni su itinerari e
opere ivi contenute.
Per coloro che non possiedono uno smartphone di
nuova generazione, l’equipe della mostra fornisce dei tablet con i quali poter
interagire con ogni singola opera in esposizione.
Pur apprezzando la proiezione verso il futuro de
Il Bello e il Vero, che fa un po’ da
terza dimensione al confronto tra la statuaria del diciannovesimo secolo e
quella del ventesimo, va annotata la pecca di una quasi totale assenza di totem
tradizionali, segnaletica o schede più approfondite sui pezzi in mostra, che
non va oltre il semplice tag con il titolo, l’autore e la datazione, e ciò ne
limita la più semplice fruizione ed approfondimento da parte di un pubblico non
avvezzo ad una tecnologia ostica, costretto così alla sola contemplazione di
opere che, senza un’adeguata documentazione a fronte, poco raccontano degli
autori, delle tecniche e delle commissioni che le hanno generate.
In un mondo sin troppo connesso alla rete, in
cui gli esseri umani, anche fuori casa, trascorrono più tempo con il naso
incollato al display di uno smartphone piuttosto che alzare lo sguardo e
vedersi intorno, intrappolati in una vita sempre più virtuale, è lecito
domandarsi se c’è veramente bisogno, in un presente o un futuro prossimo che
sia, di mostre in cui le opere stesse sono messe in secondo piano dalla
tecnologia che le presenta, ammirate attraverso schermi di poco più di sette
pollici, anziché lì dove sono, dinanzi ad uno spettatore che quasi è costretto
ad ignorarle o guardarle frettolosamente.
Se è vero che “l’occhio vede ciò che la mente
conosce”, come affermava Johann Wolfgang
Goethe, senza dubbio la memoria tenderà a ricordare più l’esperienza
sensoriale cui è (ormai) abituata piuttosto che opere che ha scorto
furtivamente per la prima volta. E se a questa esposizione, unica nel suo
genere, a cura di Isabella Valente,
va riconosciuto il merito di aver osato, creduto e investito tanto nella
tecnologia, a fine itinerario al visitatore resta l’arida sensazione di non
ricordare quasi nulla, se non una sequela di immagini su di un display a
cristalli liquidi, chiedendosi se non fosse stato meglio credere (e investire),
in un’era economicamente e lavorativamente difficile, di più nella sinergia tra
esseri umani, in quegli studenti di storia dell’arte e beni culturali e in
quelle guide appassionate, che possono spiegare con il cuore e coinvolgere con
il loro entusiasmo chi si avvicina per la prima volta all’arte, che non in
tablet, sensori e televisori che poco lasciano e poco riescono a comunicare
davvero: per una mostra meno rivoluzionaria forse, ma senza dubbio più reale.
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