Magazine Diario personale
L’inno. Il loro. Ma noi chi siamo?
Sentito alla radio che prende male, fuori il luna park dell’Idroscalo sotto la pioggia, è più tetro di quanto non si possa permettere d’essere.
Il trucco si scioglie ma viene raccolto in appositi contenitori, da conservarsi in luogo asciutto lontano da fonti di calore.
La libertà non è più cosa mia, tenetevela, vi esploderà in mano.
Questo – il luna park chiuso e umido - è il posto giusto per sentir rinascere il fascismo.
Non me l’ero sognato così. Il fascismo che aspetto da quando ho imparato a parlare era più scuro in viso. Certo, avrei potuto sognarlo meglio. Avrei potuto sognarlo con due teste, e invece qui non ce n’è neanche una. Lo vedevo ovunque – polizia, professori, zarri del campetto, imborghesiti, arricchiti, politicanti, madri, padri. Con un ventaglio così ampio, era difficile toppare: controllavamo il fronte dalle nostre quattro mura e urlavamo al duce al duce quando vedevamo qualcosa di sospetto.
Andavamo a letto ricontando quanti allarmi avevamo dato, e mi stupivo nello scoprire che la loro frequenza si abbassava drasticamente nei giorni di festa, all’ora di pranzo e nelle giornate di sole. Io ero sulla muraglia rivolta ad est.
Appena sotto sfilavano – ogni mercoledì sera – i nazisti di Piazzale Susa. Fiaccolate lungo i giardini di viale argonne – dove qualche anno prima andavo per giostre, dove qualche anno dopo sarei andato per hashish.
Non che le abbia mai viste le fiaccole. Avevo appena imparato a non aver paura dei tedeschi (chi mi aveva cresciuto con la paura dei tedeschi?), ero sgusciato via da elementari e medie schivando risse, schiaffi, sigarette e gente che ci si vede fuori.
I nazisti venivano a colmare una sopraggiunta mancanza, sfilavano per ricordarmi una presunta grande verità: là fuori c’è qualcuno che indipendentemente dalle tue azioni ha una gran voglia di pestarti. Grazie, me ne ricorderò.
E intanto nessuno mi pestava. Uno schiaffo, che risuonò nel corridoio del liceo come uno stiamo arrivando. Nulla più.