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A cinquantanni dagli avvenimenti (il libro venne pubblicato nel 1920), il tenente colonnello Cesari, che lavorava nell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, aveva interesse a non minimizzare la forza dei briganti che operavano nei territori dell'ex Regno delle Due Sicilie. Veniva così giustificato che «oltre 120 mila soldati si trovavano pertanto nell'autunno di quell'anno [1861] nel Napoletano e in Sicilia, rappresentando siffatta cifra poco meno che la metà dell'intiera forza sotto le armi».
Le popolazioni meridionali consideravano quell'esercito italiano «violatore e usurpatore dei legittimi diritti dello stato napoletano». Nell'immaginazione popolare, scrive il Cesari, il brigantaggio era una milizia proletaria, in difesa delle istituzioni borboniche, che con i suoi eroismi, con le sue sofferenze, con le sue glorie era degna di essere coadiuvata e sorretta materialmente e moralmente.
Il libro del Cesari, pur scritto dalla parte dell'esercito piemontese, rappresenta anche un riconoscimento delle ragioni della lotta armata delle popolazioni meridionali. Il libro si apre con l'affermazione, quasi una epigrafe: «Uno studio completo sul brigantaggio non è ancora stato fatto e difficilmente potrà farsi in avvenire».
Secondo il Cesari molteplici sono le cause di questa difficoltà, ma la principale è l'esistenza di un materiale documentario che per quanto abbondante è assai frammentario e tuttora disperso.
Mentre la migliore raccolta di documenti militari è conservata nell'archivio storico dello Stato Maggiore, invece i carteggi politici ad amministrativi, indispensabile complemento per capire la materia, giacciono nascosti negli archivi dello Stato, delle Provincie e dei Comuni, o peggio, per i frequenti cambi di sede degli enti pubblici dal 1860 in poi, sono andati perduti.
Ma anche se tutti questi documenti ufficiali tuttora esistenti venissero riuniti, sostiene il Cesari, mancherebbe alla narrazione dei fatti di brigantaggio quella particolare essenza di elementi psicologici e aneddotici che solo le fonti private, i libri di appunti e le note personali possono fornire, elementi questi ultimi «in gran parte scomparsi o tutt'al più conservati presso qualche famiglia come carte intime non destinate alla pubblicità». Mancando questa seconda ed importante sorgente privata viene a mancare il necessario colore delle anime e degli ambienti.
Un altro ostacolo per la trattazione del fenomeno del brigantaggio, sosteneva il Cesari nel 1920, è il non poter raffrontare i documenti di parte italiana con quelli ufficiali e segreti di parte borbonica, di parte pontificia ed anche di parte straniera, «perché essendo stata la reazione politica il principale movente di quella insurrezione sarebbe logico e giusto poter consultare in parallelo, come si fa nelle relazioni delle campagne di guerra, le varie documentazioni dei belligeranti».
A compensare questo materiale mancante avrebbe potuto intervenire la ricca produzione bibliografica, già allora esistente, ma fra le centinaia di libri sul brigantaggio, dice il Cesari, sono rarissime le pubblicazioni importanti ed originali.
Anche nei giornali, contemporanei ai fatti, prevale la fantasia sulla realtà.
Per tutti questi motivi, sostiene ancora il Cesari, «uno studio sul brigantaggio deve percorrere vie diverse da quelle battute fin qui, considerando il fenomeno come un lungo episodio di reazione politica con tutte le sue cause e con tutti i suoi effetti, come qualunque altro fenomeno storico riflettente la sostituzione di due diverse forme di governo e di due diversi ordinamenti statali».
E' ovvio che il Cesari ritiene che l'unità d'Italia andava comunque fatta, e quindi giustifica tutto ciò che i Piemontesi fecero in quegli anni, specialmente quello che fece l'esercito «che nella sua opera modesta, disinteressata, coscienziosa, fu il primo fattore dell'unità della patria».
Il libro quindi ripete sostanzialmente quello che si diceva dal lato dei Piemontesi, a cominciare dalla divisione temporale che si dava al fenomeno, ritenuto politico fino al 1863, frammisto alla delinquenza comune negli anni successivi, fino a diventare solo delinquenza.
Certamente la novità del libro consiste nella puntuale descrizione della dislocazione delle truppe in azione nelle zone e sottozone in cui fu diviso il territorio dell'ex Regno delle Due Sicilie, con i relativi comandi e nomi dei comandanti. In appendice poi sono riportate le ricompense accordate ai vari corpi dell'esercito per la repressione del brigantaggio: Stato maggiore, Carabinieri, Granatieri, Fanteria, Bersaglieri, Cavalleria, Artiglieria, Genio.
Si parla della Corte borbonica, che da Gaeta si era trasferita a Roma insieme al re Francesco II; si parla dei legittimisti stranieri (di alcuni solo con brevi cenni) che erano venuti (non si sa quanto disinteressatamente) in soccorso del re Borbone in esilio: De Crysten, Josè Borges, Raffaele Tristany, Zimmerman, Alfredo de Trazeignes, Lagrance, ecc.; si parla dei capi briganti (e delle loro bande, che numerose operarono in tutto il Sud): Giuseppe Nicola Somma (Ninco Nanco), Giovanni Piccioni, Luigi Alonzi (Chiavone), Domenico Coia (Centrillo), Giano [Giona] e Cipriano La Gala, Carmine Crocco, Michele Caruso, ecc.
Il Cesari chiude ottimisticamente il libro scrivendo: «andarono gradatamente affermandosi in tutta l'Italia meridionale la fiducia nelle nuove istituzioni e il sentimento unitario». Ma in realtà così non fu.
Cesare Cesari, Il Brigantaggio e l'opera dell'Esercito Italiano dal 1860 al 1870, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese (BO) 2002, Ristampa anastatica dell'edizione del 1920 dell'Ausonia di Roma, pp. 176
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