Magazine Cultura
di Samantha Lombardi
La fase iniziale della media età del bronzo vede tutte le zone umide popolate intensivamente, in particolar modo le rive dei bacini lacustri dove, in un periodo di clima arido, la fertilità dei terreni diventava un requisito fondamentale per l’insediamento.
E’ in questa fase che sembrano affermarsi il concetto di “territorio” pertinente a ciascun centro, e quello, dovuto all’esigenza di sfruttare diversi ecosistemi e collegato ad un aumento della pressione demografica. Il quadro delineato cambia in modo concreto nella parte finale della media età del bronzo, caratterizzata da un accrescimento diffuso delle aree d’altura. In alcune zone dell’Italia Centrale interna, come quelle dei villaggi situati intorno ai bacini lacustri della Conca Velina, del Fucino e dei Colli Albani, si hanno delle vere e proprie comunità “policentriche” in cui il valore della collaborazione, tra le singole unità insediative, doveva essere maggiore di quello della conflittualità che sussisteva nel modello dell’insediamento su altura.
Nel corso del XIII secolo a.C. due eventi particolarmente significativi sembrano verificarsi nel versante tirrenico: il graduale abbandono degli abitati perilacustri o posti in zone umide e la fine dell’utilizzo delle cavità naturali.
Alcuni ritrovamenti, delle fasi iniziali della media età del bronzo, rappresentano le prime testimonianze, in Italia Centrale, della comparsa dell’ovicultura. Lo studio e i dati bio-archeologici dei territori, disposti intorno ai siti della media età del bronzo, ci permettono di presumere che, nei villaggi delle zone collinari, venissero praticati oltre ad un’agricoltura cerealicola scarsamente sviluppata anche l’allevamento di suini e bovini di piccola taglia utilizzati soprattutto a scopo alimentare; anche se all’allevamento dei caprovini, che era la specie più attestata dai resti faunistici, doveva in realtà dedicarsi solo una percentuale ristretta delle collettività. Le offerte rituali di cereali e leguminose, la torchiatura delle fave, sono ulteriori elementi che potrebbero però far ipotizzare, in questo periodo, il ruolo secondario dell’agricoltura. Più in generale, il periodo compreso tra il XVII e il XIV secolo a.C. vede il dominio di un esempio di sostentamento basato sull’introduzione di attività agricole e pastorali, con notevole rilevanza di quest’ultime.
La ripresa della metallurgia, sia per la realizzazione di strumenti in bronzo che per quella di asce adoperate presumibilmente per il disboscamento e la “conquista” di nuovi terreni coltivabili, l’aumento in percentuale dei resti di bovini negli abitati, l’evidenza dell’incremento di graminacee nei pochi diagrammi pollinici conosciuti, la fine dell’utilizzazione delle cavità naturali in favore di quelle aree dove erano presenti giacimenti metalliferi, sono tutti elementi che indicano un cambio di direzione, in favore della ripresa dell’agricoltura cerealicola in tutte le zone collinari e costiere.
Il Villaggio delle Macine
Con il progressivo abbassamento del livello delle acque del Lago di Albano, meglio conosciuto come Lago di Castel Gandolfo, nella zona dei Castelli Romani a pochissimi chilometri da Roma, sono emersi dalla sabbia numerosi resti di pali appartenenti a palafitte lignee che, in origine, erano a 15 metri di profondità, ora alcuni sono a poco più di 3 metri, altri già allo scoperto, sono risalenti alla media età del bronzo e si possono, quindi, datare intorno al XVIII – XVII secolo a.C.
Questo antico insediamento tornato alla luce e soprannominato “Villaggio delle Macine”, per la presenza di un cospicuo numero di macine (ritrovate nella sabbia) usate dai palafitticoli per lavorare il frumento, costituisce per la sua estensione il più grande sito di archeologia preistorica d’Italia.
Il sito fu scoperto 1984 dopo il ritrovamento casuale di un’ascia di bronzo, da allora, le ricerche si sono protratte ininterrottamente fino al 1995 ed hanno riportato alla luce, oltre alle macine, travi, tavolati in legno, attrezzi da lavoro, oggetti in rame e ceramica tra cui brocche, tazze e soprattutto resti di pali quasi intatti che costituivano le basi di un intero villaggio che migliaia di anni prima era sospeso sull’acqua. Notevole è la rilevanza di questo ritrovamento poiché ci si è praticamente ritrovati difronte ad uno dei periodi di transizione preistorica ricco di cambiamenti culturali e sociali. L’età del bronzo, com’è noto, era contraddistinta dall’importanza che assumeva la lavorazione dei metalli, tra cui il rame, ma fu soprattutto con l’uso del bronzo che, se da un lato portò alla nascita di nuove professioni e ad una maggiore diversità sociale, dall’altro fece sorgere problemi circa la sicurezza e la salvaguardia dei luoghi più ricchi di risorse.
Sia i lavori di scavo che la stratigrafia hanno entrambi portato gli studiosi a cercare di ricostruire l’ambiente che contraddistingueva questo insediamento che, in ogni caso, hanno congetturato che, lo stesso, è stato abbandonato presumibilmente intorno al XV secolo a. C. a causa dell’innalzamento progressivo del livello delle acque del lago.
Lo studio degli archeozoologi sui resti fossili degli animali ha portato a risultati interessanti: si evidenzia infatti che la comunità non si limitava solo a praticare la pesca, ma allevava ovini, bovini e suini, e disponeva anche di una rilevante quantità di cacciagione. Inoltre l’analisi della stratigrafia del suolo ha messo in evidenza una diversa varietà di semi che stanno a indicare che gli abitanti di questo villaggio si cibavano anche di vari tipi di frutta tra cui fichi, more, corniole ecc., mentre dall’analisi dei pollini si è scoperto che l’albero in maggior misura presente nella zone dell’insediamento era la quercia.
L’osservazione dell’insieme, associata alla vasta estensione dell’insediamento, ha portato alla considerazione che il sito sia stato abitato stabilmente e che la comunità non praticava emigrazioni di tipo stagionale. E’ stato altresì considerato che gli uomini del Villaggio delle Macine, con il taglio indiscriminato di una notevole quantità degli alberi, si sono resi responsabili di un radicale impoverimento della flora dell’area direttamente circostante il villaggio.
Oggi i vari reperti recuperati dagli archeologi sono custoditi nel Museo Nazionale delle Navi Romane di Nemi, mentre, sulla riva settentrionale del Lago di Albano restano svariati resti di pali palafitticoli, sporgenti e ben visibili, indubbiamente poco o per nulla protetti da una “recinzione” posta intorno all’area dove dovrebbe essere addirittura interdetto l’accesso. Di materiale deperibile (legno) oltre che essere esposti alle intemperie e al sole, ma soprattutto ai vandali che non si fanno scrupolo di dargli fuoco, rischiano di essere distrutti in breve tempo sia dall’azione dell’aria che da quella dell’uomo. Pur essendo di competenza della Sovrintendenza dei Beni Archeologici del Lazio anche questo sito, come molti altri versa nel più desolato degrado. I fondi messi a disposizione per la loro tutela non sono sufficienti e quei pochi non servono a molto se non a tamponare una situazione peraltro già grave.
Durante il mio sopralluogo ho potuto verificare che il sito, anche se dovrebbe essere interessato da scavi archeologici sistematici (vista la presenza del cartello SCAVI), si trova a tutt’oggi sommerso da un vasto canneto e da erbacce, nonostante sia uno degli insediamenti preistorici più importanti d’Italia, continua a versare in uno stato di totale abbandono e degrado.
L'immagine del villaggio delle macine è di www.ilmamilio.it
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