Se Cristo fosse vivo oggi, sarebbe grasso. dal film “La Passione”, di Carlo Mazzacurati
Una mattina come tante, accendendo il telefono, a Fabio venne in mente un’espressione, un modo di dire che usavano spesso le sue zie zitelle nei discorsi tra donne. Mentre i messaggi si succedevano componendo un ritmo nevrotico e snervante, una voce nella testa gli sussurrò l’espressione buon partito. Lui che non si era mai ritenuto, nemmeno durante l’ubriacatura più euforica, minimamente attraente, che aveva baciato la sua prima ragazza a diciotto anni, si trovava improvvisamente, ad anni quarantuno, ad essere un buon partito. Era sempre stato refrattario allo sport, eppure il suo fisico aveva saltato la staccionata dei quaranta senza un filo di grasso. Delle piccole cicatrici sulle guance, e su cui non cresceva la barba, gli ricordavano i tormenti dell’acne. Timido al limite dell’handicap sociale; arrossiva se qualcuno gli faceva un complimento, diretto o velato, arrossiva persino se qualcuno parlando con lui tirava fuori l’argomento sesso. Ne aveva fatto poco di sesso Fabio, aveva sempre studiato come un matto, al liceo come all’università, ma anche e soprattutto dopo; superò l’esame di Stato d’avvocato al primo colpo, in pochi anni era diventato il più famelico topo da tribunale dello studio associato in cui lavorava, e le tirocinanti fresche di università, che vagavano nello studio inciampando sui tacchi, con quei tailleur a nascondere tatuaggi e piercing, poi spavaldamente messi in mostra non appena fuori dall’orario d’ufficio, erano pazze di lui. Ma c’era dell’altro; se Fabio era diventato involontariamente un buon partito, da parte sua aveva sempre cercato di essere una brava persona. Gli dicevano che era troppo buono per fare il penale, e troppo idealista, ma gli altri non lo sapevano, o meglio lo scoprirono solo dopo, che la sua insicurezza svaniva non appena si alzava il sipario su quella recita, quel dramma che comincia sempre con un penoso dialogo, prosegue in un lungo ed estenuante vorticare di rinvii, lettere e atti da depositare, e si conclude con un’arringa, più o meno appassionata, che precede un epilogo altrimenti noto come sentenza. Fabio non rifiutava nessun cliente, come era nella filosofia dello studio, e probabilmente, della professione tutta, ma ogni tanto si andava a cercare personalmente il cliente nei trafiletti della cronaca locale, nelle storiacce più atroci, faceva pressioni per farsi nominare d’ufficio, addirittura anticipava di tasca sua le spese giudiziarie, lo faceva se i personaggi intorno a cui si stava costruendo la commedia erano dei poveri cristi, magari non gigli ma pur sempre figli, vittime di questo mondo, citando la sua canzone preferita. Era probabilmente anche questo ad averlo reso così interessante agli occhi delle colleghe.
Irene, Elisa, Marina, Veronica, Giulia, Silvia, Anna, Paola, Sara, Serena, erano stati i suoi ultimi appuntamenti, nessuno su sua iniziativa, e nessuno che si fosse tramutato in sesso. I tre gradi di giudizio di ognuno di questi appuntamenti era sempre lo stesso: eccitazione, imbarazzo, noia. C’era solo una persona che ultimamente gli piaceva; Elvira, trentaquattro anni, in studio da almeno sei. La sua risata vagamente afona gli faceva girare la testa. Un giorno Elvira si presentò in studio particolarmente elegante, qualcuno le fece una battuta, un’avance, Fabio ebbe un moto di gelosia, si fece coraggio e la invitò a cena. Era il 15 aprile.
Tra una portata e l’altra parlarono di lavoro, poi Elvira gli confessò di vivere ancora con i genitori, i quali non vedevano l’ora che si trovasse un uomo. Lui riuscì a estorcerle in più occasioni quella risata per cui perdeva la testa.
– Erano buoni gli scampi? – Chiese lei.
– Ottimi. Se vuoi ne ordino altri… non hai mangiato nulla.
– No no, per carità!
– Non mi dirai che sei a dieta? Sei in forma smagliante…
– Fabio, ho perso venti chili in un anno, non ti ricordi com’ero?
Fabio si strinse nelle spalle, con il cuore in aritmia per la figura di merda che si stava palesando.
– Vedi; prima non mi notavi neanche, quando ero una cicciona!
Fece un broncio da bambina, e lo guardò con malizia. Ecco, in questi casi Fabio generalmente diventava rosso, ma non questa volta. La sua espressione divenne corrucciata, seria, e non disse nulla, il che spinse Elvira ad approfondire l’argomento.
– Avevo un problema col cibo, non era bulimia, i medici lo definirono disturbo da alimentazione incontrollata, mi abbuffavo fino a scoppiare, soprattutto di dolci.
– Ora non ne mangi più?
– Ogni tanto, in occasioni speciali.
– Qual è il tuo dolce preferito?
– Profiteroles. Mhm, solo a pronunciarlo mi viene l’acquolina…
Fabio alzò la mano per chiamare il cameriere. Elvira intuì le sue intenzioni, e lo supplicò:
– No, ti prego!
– Hai detto solo in occasioni speciali, e questa forse non lo è?
Lei si sentì improvvisamente inerme, sopraffatta. Lo guardò. E non pensò più.
Uscirono altre tre volte, sempre a cena, al quarto appuntamento scoparono, e Fabio la mattina dopo le portò a letto un cappuccino con due cornetti, uno al cioccolato semplice e uno al cioccolato bianco. Il primo maggio le preparò un pranzo con le sue mani. Risotto agli asparagi, scaloppine al limone e zuppa inglese, quest’ultima per sei persone. Lei si fece coraggio e rifiutò il dessert, e chiese della frutta, Fabio tirò fuori una macedonia, e quando sentì lo sciroppo di glucosio, che impregnava la fetta di banana, esploderle in bocca, le sfuggì una lacrima:
– Perché mi fai questo?
Lui le si avvicinò, le prese la mano e le chiese:
– Vuoi venire a vivere qui, con me?
Lei cercò di dire di sì, ma per l’emozione aveva le corde vocali paralizzate, allora prese il cucchiaio e lo affondò nella crema della zuppa inglese. Arrivò l’estate, e Fabio comprò un congelatore solo per i gelati. Elvira non se la sentì di andare al mare, la cellulite la ossessionava. A settembre si arrese all’idea di rinnovare il suo guardaroba, i suoi vecchi abiti, quelli della sua vita precedente, li aveva gettati tutti. Un giorno di novembre, la signora Luisa telefonò a Fabio per chiedergli cosa stesse succedendo a sua figlia, perché non si faceva più vedere, perché non andava a trovare i suoi vecchi genitori, e Fabio non seppe cosa rispondere. Con l’arrivo dell’inverno il peso di Elvira cominciò ad aumentare paurosamente, verso natale aveva quasi doppiato il suo peso forma, non andava più a lavoro, e le sue cause ormai le seguiva Fabio. Per la notte dell’ultimo dell’anno Elvira volle rimanere a casa, solo lei e lui, come sempre, del resto, da mesi a quella parte, ma Fabio fece comunque la spesa per un cenone vecchio stile, quelli che riunivano tre generazioni della stessa famiglia. Col nuovo anno Fabio comprò un nuovo materasso, e una rete con doghe rinforzate, ormai Elvira si alzava solo per andare in bagno o per prendersi del cibo in cucina, quando quello che Fabio le aveva lasciato in camera era finito. Non dormiva quasi più e si faceva prescrivere dei tranquillanti che non prendeva mai. Non facevano l’amore da tempo, lui ne avrebbe avuto ancora voglia, ma lei si deprimeva solo all’idea. E venne maggio; Fabio tornò a casa presto, era un giorno di festa ma lui era stato comunque in ufficio a studiare un fascicolo. Quando entrò in camera da letto vide una bottiglia di vino e due bicchieri già colmi sul portavivande, quello che generalmente traboccava di brioche e barrette al cioccolato.
– Dobbiamo brindare – disse Elvira.
– D’accordo – rispose Fabio, – cosa si festeggia?
– Lo sapevo che non ti saresti ricordato; esattamente un anno fa mi hai chiesto di venire a vivere con te.
– Ah giusto – disse Fabio diventando rosso, e per soffocare l’imbarazzo buttò giù mezzo bicchiere di vino.
Parlarono un po’, e bevvero, poi Fabio cominciò a sentirsi stanco, e si sdraiò accanto a Elvira.
– Non dovevo bere quel vino a stomaco vuoto, mi gira la te… la testa.
– Non è il vino – rispose Elvira.
Fabio si voltò verso di lei, cercò di sollevarsi sui gomiti, e ci riuscì, per un solo secondo, il tempo di vedere i flaconcini vuoti di benzodiazepine sul comodino accanto al letto.
– Perché? – Chiese lui.
– Perché mi hai annientato, seviziato, violentato, ti basta? e ora dimmelo tu, perché? Perché mi hai fatto questo?
– Volevo… quella volta che… che mi hai detto che non ti avevo mai notata, quando eri grassa, volevo dimos… dimos… trare a te, e a me, che ti avrei amato lo stesso… lo stesso…
Cominciarono a vomitarsi addosso, incapaci anche solo di sporgere la testa oltre il bordo del letto, e poi svennero. Quando Elvira si svegliò constatò delusa di essere ancora viva, guardò lo specchio di fronte al letto alla ricerca del riflesso di Fabio, e il suo corpo era ancora lì, nelle stessa posizione in cui lo aveva visto l’ultima volta, nella stessa posizione in cui lo aveva visto per l’ultima volta da vivo. Avevano assunto la stessa quantità di ansiolitico, ma non aveva considerato che la sua massa corporea non era la stessa di quella di Fabio. Con uno sforzo immane Elvira sollevò il braccio per afferrare il cordless sul comodino, fece cadere tutto, le boccette di tranquillanti, le pomate per le piaghe da decubito, le caramelle per l’alito, il telecomando del televisore e quello per l’aria condizionata, ma il cordless si incastrò magicamente nel morbido incavo della sua mano; telefonò al 113 e confessò di aver ucciso il suo compagno.
Si svegliò ancora una volta, questa volta in una stanza che non conosceva, sembrava un ospedale, vide fuori dalla porta della stanza la sagoma di un carabiniere, probabilmente era lì per lei. Si accorse di un ragazzo sulla trentina che era seduto al suo fianco, in giacca e cravatta e con una ventiquattrore sulle ginocchia. Il ragazzo balzò in piedi non appena si accorse che Elvira era cosciente.
– Salve Avvocato, si sente meglio? – Disse il ragazzo ad Elvira, – sono un collega, anche se probabilmente lei non mi conosce. So quello che è successo, il vice questore è un mio caro amico… mi scusi, la lascio riposare, volevo solo dirle che se me lo permette… vorrei assisterla io… se non ha già pensato a qualcun altro ovviamente, anche se, non dovrei essere io a dirglielo, ma insomma… i suoi ex colleghi si sono già offerti di seguire i famigliari del defunto. Io invece credo… io credo che lei… insomma, come dice il poeta, se non siam gigli siam pure sempre figli, vittime di questo mondo.