di Iannozzi Giuseppe
Il buonismo, di stampo prettamente borghese, non è un fenomeno sociale nuovo, anzi si può dire con tutta tranquillità che ha preso piede molti ma molti anni fa, più precisamente nel periodo cosiddetto romantico. Il Cristianesimo è stato, ed è tuttora, alla base del buonismo: la pietà è stato il sentimento principale che ha alimentato lo smisurato ego di poeti e scrittori. Oggi nessuno sarà pronto ad ammettere che Goethe, Foscolo, Balzac, Hugo sono stati anche degli uomini cattivi; anzi, dirò di più, se contro di loro una accusa verrà mossa, sarà solo d’esser stati troppo pietosi nei confronti del prossimo.
Il romanticismo, come si è detto, ha spianato la strada al sentimentalismo (oggi ribattezzato buonismo borghese): i poeti romantici hanno dato vita alle loro opere migliori guardando al mondo degli afflitti, dei diseredati, degli assassini per necessità, dei poveri, ed hanno scritto della ‘povertà e di tutte le sue sfumature’ pur non conoscendola per presa diretta. Un appunto: per romanticismo storico intendo tutta quella schiera di scrittori, poeti e filosofi che hanno evidenziato (loro malgrado e inconsapevolmente) come l’essere umano sia molto più portato a commuoversi per la povertà quando questa è ridotta a mero strumento di espressione artistica, quindi romantici sono stati tutti quegli uomini di lettere che, indipendentemente dalla corrente letteraria/filosofica a cui facevano capo, hanno trattato i temi della povertà o in veste di veristi, di esistenzialisti, di neorealisti, naturalisti, ecc.
Il romanticismo ha avuto un decorso lungo e traumatico che ancor oggi non tende a smorzarsi: se parlo di decorso è perché, purtroppo, il romanticismo è una malattia, uno stato dell’animo, una propensione al vittimismo e al pietismo, non a caso, oggi che i grandi poeti del passato sono diventati pura merce per le librerie, altri poeti, quella della nostra generazione, continuano a parlarne tessendone lodi sperticate e continuano a investire parole su parole per promuovere il buonismo, che in fondo è possibile trovare nelle parole dei grandi o che si vuol correggere in grandi. Come tutto risultato, per riflesso citando i poeti del passato, i nuovi poeti assurgono alla stessa altezza dei loro miti letterari. Così stando le cose, non è difficile incontrare un novello poeta della new age asserire che i suoi modelli di ‘educazione sentimentale’ sono stati Dickens, Hugo e Madame Bovary ovviamente: questo novello poeta ripete le parole, solo le parole (e non i concetti) dei suoi idoli, dei suoi miti letterari, facendole sue e quindi, alla fine, non può fare a meno di riconoscersi lui stesso un grande.
Ora io nutro forti dubbi che Goethe e Foscolo e Dickens siano stati a diretto contatto con la vera povertà (al massimo il Dickens giovanile ha conosciuto la povertà, questo è vero… ma poi il successo gli ha arriso): al massimo, nella loro vita, hanno attraversato periodi non propriamente felici, ma mai hanno vissuto una condizione di completa alienazione sociale come quella che hanno descritto sommariamente nei loro libri. Mi risulta difficile, se non impossibile, credere che ad esempio, Zola scrivendo Germinal si sia sentito un perfetto proletario: Zola, pur non appartenendo in senso stretto al romanticismo, pur volendo scattare una ‘fotografia letteraria e sociale del suo tempo’, si è limitato essenzialmente a descrivere il proletariato e i lavoratori, con animo poetico naturalista, certamente, ma nulla di più. Il fatto è che Dickens come Zola hanno ritratto il loro tempo, i costumi sociali, hanno tradotto i sentimenti del loro momento storico in sentimento storico, o meglio ancora in sentimento artistico; magari hanno creduto ciecamente in quello che hanno mirabilmente descritto, ma la povertà, quella vera, non l’hanno mai provata. Tuttavia anche una asserzione siffatta non è completamente genuina, perché, di fatto, non mancano casi eccellenti di scrittori che hanno scritto della povertà in condizioni di estrema povertà: ad esempio, Jack Kerouac, non è mai stato ricco, a malapena riusciva a sbarcare il lunario, ha fatto mille e più mestieri nella sua vita, ha vissuto a stretto contatto con la povertà e così ha scritto della povertà e della poesia che essa conserva nel suo grembo. Ma Kerouac è un caso isolato insieme a pochi altri. La differenza fra Kerouac e Zola è netta: il primo viveva la povertà, il secondo ha vestito i panni della povertà per descriverla. A ogni qual modo, il risultato finale è lo stesso: oggi le loro opere ispirano gli stessi sentimenti presso il lettore borghese, un quieto buonismo.
Il lettore moderno, quello che può permettersi di comprare dei libri (che poi li legga veramente fino alla parola fine e ne comprenda il significato è un’altra cosa!) lo fa con lo spirito di scaricarsi la coscienza: il ragionamento che fa è pressappoco questo: “…io voglio conoscere il mondo, io non sono un essere insensibile, quindi conoscerò il mondo attraverso gli occhi dei poeti perché poeta non sono però vorrei tanto esserlo…”. E qui nasce spontanea la lacrima facile: il lettore piange, si rammarica che al mondo esista la povertà, la vede tutti i giorni per le strade del centro, ogni giorno occhi cisposi come vecchie porcellane gli si posano addosso, e sono gli occhi dei barboni vestiti di stracci e di fame e di una rabbia infinita e impotente che non ha né la forza né la possibilità d’esser estrinsecata. A estrinsecare questo aborto ci pensa il lettore borghese pregno di buonismo, ahinoi sempre pronto alla lacrima facile. Ma poi, le lacrime facili sono quelle che presto si dimenticano: inutile imbottirsi di buoni sentimenti presi a prestito dalla letteratura se poi non vengono tradotti in azioni reali che possano contribuire alla costruzione d’una società migliore di quella che attualmente stiamo vivendo.
Anche la letteratura può produrre sentimenti virtuali, ma solo virtuali. Così non è difficile comprendere come un poeta esistenzialista come Boris Vian e un poeta maledetto come Paul Verlaine e uno strettamente romantico come Goethe possano essere ricondotti sullo stesso piano, quello del romanticismo storico: tutti esprimono delle sensazioni, dei sentimenti aggiustati secondo il loro modo di vedere, il lettore poi compie l’ultimo atto di metaproduzione opponendo alla realtà dei fatti meramente letterari la sua visione solipsista dei sentimenti poetici letti.
Cosa significa tutto ciò? Semplice: oggi, se Benito Mussolini avesse scritto delle poesie, sempre oggi, se la sua opera poetica venisse messa sul mercato, qualcuno non esiterebbe a scoprire in Mussolini un poeta, un romantico, uno che in fondo in fondo, nonostante tutta la sua ferale crudeltà, era pur sempre un uomo dotato d’un animo sensibile, un uomo che sapeva di poesia, uno che nel suo tempo non è stato compreso appieno nell’animo. Mussolini è stato un fascista e basta, su questo non ci piove – nonostante quattro poesie scritte per far pubblicità al fascio. Ma non è detto: temo che ancora in molti credono che Mussolini abbia fatto del bene, che non è stato compreso, che è stato una vittima del suo tempo storico.