“La mia infanzia è come un paese felice, del quale mio padre è l'assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza; ma nei brevi intervalli che trascorreva A Procida, io lo seguivo come un cane. Dovevamo essere una buffa coppia, per chi ci incontrava! Lui che avanzava risoluto, come una vela nel vento, con la sua bionda testa forestiera, le labbra gonfie e gli occhi duri, senza guardare nessuno in faccia. E io che gli tenevo dietro, girando fieramente a destra e a sinistra i miei occhi mori, come a dire: «Procidani, passa mio padre!” (Elsa Morante)
In una chiacchierata tra padri capita che si cominci a parlare di quell’orgoglio nei nostri confronti che ogni tanto sentiamo nei nostri figli e che loro hanno bisogno di comunicare, di esprimere, di sottolineare.
Si tratta di una sensazione gradevole che ci scalda, che ci mette per un istante al centro dell’universo, che ci fa sentire importanti e che, se passiamo dolcemente la lingua tra i denti tenendo serrata la bocca, ci fa assaporare il sapore agrodolce, intenso e forte della paternità.
Una sensazione alla quale è bello, ogni tanto, lasciarsi andare. Una sensazione che - qualcuno sottolinea - lascia anche un po’ di amaro in bocca e che a volte apre vecchie ferite che ci portano al cospetto dei nostri padri e del nostro essere stati figli di quei padri.
Questa affermazione cambia il colore della chiacchierata che fino a questo punto è stata leggera, costellata di sorrisi di compiacimento e di una gradevole complicità.
Chi parla è Alfredo, il padre di due adolescenti grandicelli che sente il bisogno di sottolineare che non sempre quell’orgoglio è ben riposto, che a volte quell’orgoglio per il proprio padre lo si cerca disperatamente e ce lo si inventa persino, pur di poterlo esibire agli altri; sta parlando non di lui come padre ma come figlio, figlio di un padre che non gli ha dato molte occasioni per essere orgoglioso di lui.
Racconta di come arrivava ad inventare avventure e imprese di un padre che gli altri non avevano mai neanche visto e del quale lui, continuamente tesseva le lodi con i suoi compagni di scuola e di giochi. Mi colpisce una frase soprattutto: “Riuscivo perfino ad inventarmi il suo aspetto fisico. Lo descrivevo così come mi veniva e a volte pensando al papà di qualcun altro. E più lo descrivevo, più si definiva in me il padre che desideravo”.
Il racconto si fa intenso e tutti ascoltiamo in un attento silenzio.Alfredo racconta di una violenza che alcune volte arrivava anche alle botte ma che, sempre e continuamente, era una violenza psicologica, relazionale che lo metteva con le spalle al muro con difronte quest’uomo che inveiva e che lo faceva sentire colpevole di qualcosa che lui non capiva. Racconta di come cercasse continuamente l’immagine di quel padre bello, coraggioso e soprattutto tenero e pieno di attenzioni, che lo facesse sempre sentire amato e voluto, per poterla sovrapporre a quell’uomo che lo faceva piangere, che lo spaventava e che lo faceva sentire inutile, di peso, colpevole.
“Ogni volta che mi ritrovavo solo a piangere mi dicevo che non sarei mai stato un padre così, che i miei figli li avrei amati.”
Chiude il suo racconto e sottolinea che lui, tutti i giorni, si sforza di essere un padre attento, paziente e fieramente racconta di come in tutti questi anni di paternità non ha mai alzato una mano sui propri figli.
E sì, siamo anche i padri che ci siamo immaginati di essere guardando - da figli - ai nostri padri.
Quante cose abbiamo mutuato dalle relazioni che abbiamo intrattenuto col nostro genitore; quanti desideri abbiamo elaborato mentre ci tenevano la mano davanti alla scuola o mentre tentavano di farci capire che avevamo sbagliato o ci punivano, o ci perdonavano.
Ma quante cose abbiamo anche capito, nel tempo, che non avremmo voluto fare ai nostri figli, coi nostri figli, per i nostri figli di quelle che i nostri padri facevano a noi, con noi e per noi.
La storia di Alfredo diventa occasione per il piccolo gruppo di padri, alle prese con questa chiacchierata, di riflettere su quale tipo di padre siamo diventati partendo dall’esperienza che abbiamo attraversato come figli.Emerge ben presto la questione di quale tipo di uomo, di maschio siamo diventati nel tempo, di quante questioni nuove abbiamo dovuto prendere in considerazione e abbiamo dovuto affrontare, differenti da quelle che hanno dovuto affrontare i nostri padri.
Qualcuno dice che molte delle cose che fa coi propri figli erano inconcepibili per un maschio di venticinque anni prima; di come solo il ruolo giocato all’interno della coppia genitoriale sia cambiato e vede sempre più dei maschi capaci di mettersi in discussione e di immaginarsi diversi.
E così emergono da ognuno del gruppo piccole questioni familiari fatte di disagi e imbarazzi di padri che disapprovano i modelli paterni indossati dai propri figli; di madri e suocere che disdegnano comportamenti ritenuti poco maschili.
Il ruolo paterno e le sue funzioni sono ancora al centro di discussioni e riflessioni all’interno delle famiglie anche nella loro dimensione intergenerazionale ed emerge sempre più la necessità di dover andare oltre gli stereotipi della paternità e del maschile stesso.
Si tracciano, lungo la discussione di un gruppo di papà davanti ad una buona tazza di caffè, le linee di nuove scoperte che vanno ad interrogare e a sollecitare la parte più emotiva, quella che chiama alle vecchie rabbie, agli orgogli, alle speranze e ai sogni, ma anche alla voglia di amore e di tenerezza come figli e oggi come padri.
Si intravedono nei nostri sguardi le sfumature tenui di imbarazzi e inibizioni, di un lessico abituale con il quale parlare insieme, tra uomini, di queste cose, ma si assapora nelle nostre parole anche la voglia di provarci e di condividere.
Alfredo, che questa sera ci ha accompagnati con il suo racconto lungo la strada di una scoperta che stiamo facendo pian piano, torna a casa e immaginiamo tutti che farà quello che ci ha detto più volte; abbraccerà i suoi figli ormai grandi e gli dirà che gli vuole bene.
Alfredo, che non si sente un padre perfetto ma che tutti i giorni si costruisce un pezzo del padre che vuole essere, con tutte le sue imperfezioni, è stato il primo ad andare e l’ora è tarda e bisogna salutarsi.
Il discorso rimane lì, non troncato o abbandonato, rimane lì a decantare, in un rumoroso silenzio che ognuno di noi si porta a casa e che troverà lo spazio di una carezza in più, di un abbraccio o di un “Ti voglio bene” sussurrato a nostro figlio.
Oggi ai padri spetta il lavoro importante di cominciare a re-immaginarsi, di andare oltre lo stereotipo del padre forte e sicuro, del tutore e del tracciatore di limiti e regole; si apre la prospettiva di un altro ruolo e di un’altra importante sfida educativa che riguarda la necessità di riarticolare, crescendo insieme alle nuove generazioni di figli, altre possibilità del maschile, del paterno, di una genitorialità che si assume la responsabilità di un dibattito e di una sensibilità nuovi.
Al caffè dei papà se ne parla. Michele Stasi
Magazine Psicologia
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Massimo Silvano Galli
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