Anna Lombroso per il Simplicissimus
La miserabile parata degli industriali scontenti e disillusi le cui lamentele sembrano qui monologhi da ubriachi che non sanno bene con chi prendersela: uno a Venezia lanciava notturne invettive contro il re e i cosacchi, è uno spettacolo grottesco, imbarazzante ed indecente quanto quello del loro padrone di riferimento che va a lamentarsi con i “colleghi”.
Ma ha un contenuto di infamia ancora più imperdonabile. Da sempre metto in guardia me stessa dal cedere alla tentazione di definire il premier un disturbato, lo si diceva di Hitler e nuoce pensare a una furia della mente per spiegare un disegno politico, certo venato anche da qualche patologia, ma a suo modo lucido maligno e banale come spesso anzi quasi sempre è il crimine.
Ma nel caso della classe industriale italiana gli errori e i delitti sono stati compiuti in nome di una razionale ossessione: quella del denaro, dell’accumulazione senza rischi, del profitto e perché no? della sopraffazione dei ricchi sui poveri come espressione di un potere spesso ereditato poco sofferto che si vuole perpetuare per riempire forzieri personali, svuotando quelli pubblici, depauperando e impoverendo, oltre alla bellezza e al futuro del paese, anche gli umori il senso comune la coesione sociale. Così imperare e arraffare è più comodo, meno arduo e meno rischioso.
Conflitti, lotte, conquiste avevano combinato il miglioramento delle condizioni materiali di interi ceti con una nuova raggiante rappresentazione politica sociale e colturale della loro condizione, il superamento dell’assoggettamento.
Colpite le basi economiche non è stato difficile per una classe imprenditoriale ottusa e un governo che la rappresenta minare la forza del lavoro, i suoi valori e anche i livelli di coscienza dei lavoratori. Ha tagliato le forze e anche le lingue, o almeno ci sta provando. Determinando una specie di mutazione antropologica della classe lavoratrice e delle sue figure irriconoscibili del loro passato, defraudate delle memorie di dignità da trasmettere ai figli, private del racconto dei loro diritti come di un bene cui è obbligatorio rinunciare in tempi di crisi.
Tempo fa la Marcegaglia si lagnava di essere stata lasciata sola. Forse per quello ha voluto regalarsi la scampagnata di oggi, protesta e prosecco. Vorrei condannarla all’infernale disumana condizione di solitudine in cui versa la classe lavoratrice, precaria e non, l’isolamento disperato del “lavoro”, il senso di abbandono e di vuoto di chi aveva diviso luoghi produttivi e spazi di socialità e che ora si scopre freddamente lontano da cio’ chiesi agisce e si decide in strati rarefatti e indecifrabili. A sua insaputa e contro di lui. Che intravede dietro la retorica delle garanzie sempre più esili e della sicurezza sempre più incerta il precipizio della sua invisibilità di individuo e di popolo, la minacciosa incertezza, la ferocia della fatica senza la speranza dell’emancipazione.
Non mi consola che la nostra condanna sia anche la loro pena alla regressione. E che la nostra vergogna sia il loro ridicolo. Ci piacerebbe che una risata li seppellisse, ma ormai siamo troppo in collera.