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Il cannone e l’orologio

Creato il 10 aprile 2015 da Francosenia

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L’ "esplosione della città" e la traiettoria del capitalismo
di Bruno Lamas

"La produzione capitalistica cerca costantemente di superare quelle barriere che le sono immanenti, ma le supera solamente attraverso dei mezzi che le antepongono nuovamente delle barriere, ad un livello sempre più alto. La vera barriera della produzione capitalistica è il capitale stesso (...)".
- Karl Marx, Libro III de "Il Capitale" -

Sono già alcuni anni che si constata il fatto storico, di certo notevole, per cui il mondo è oggi un luogo a predominanza urbana, ossia, più della metà della popolazione mondiale vive nelle città. Ma questa constatazione sembra essere sempre accompagnata da sentimenti contraddittori: da un lato, una sorta di celebrazione di quella che sembra venga considerata una conquista civilizzatrice di per sé; ma, dall'altro lato, una profondo senso di stupore, dal momento che in realtà non sappiamo molto bene come siamo arrivati fin qui, perché non si prevede che la tendenza generale si interrompa e perché i problemi comunemente associati all'urbanizzazione non sembra che smettano di aumentare.
E' estremante difficile stimare con esattezza, riguardo le epoche pre-moderne, la quota-parte urbana della popolazione mondiale. Quello che sappiamo è che, dopo ottomila anni di urbanizzazione, la quota-parte urbana della popolazione mondiale nel 1800 era solamente il 2%, e che da allora ha progredito rapidamente, arrivando al 30% nel 1950, al 47% nel 2000 e, secondo le Nazioni Unite, ha oltrepassato il 50% nel 2008. Ciò che qui appare subito abbastanza chiaro è che la capacità di crescita urbana moderna non ha equivalente nelle società premoderne. Ma non è neanche difficile verificare che nelle epoche premoderne, l'urbanizzazione di una città era abbastanza indipendente dall'urbanizzazione (o dal declino) di un'altra, mentre la società moderna ha costituito un sistema urbano veramente mondiale, dove l'urbanizzazione di certe regioni non è autonoma da quello che avviene in altre parti del mondo. Questo sistema urbano globale è in realtà poco più che l'espressione territoriale del sistema mondiale del lavoro astratto, il quale è il fondamento del capitalismo, qualcosa che nessuna stima statistica potrà mai rivelare in sé stessa. Perciò, il problema dell'urbanizzazione moderna non è soltanto una questione quantitativa o di cambiamento del ritmo di crescita delle città; ma riguarda innanzitutto la relazione stessa fra città e capitalismo.
Chiaramente il problema può essere superato se dichiariamo semplicemente come fa Fernand Braudel, che "in Occidente, capitalismo e città, in fondo, sono state la stessa cosa" (Fernand Braudel - Civiltà materiale, economia e capitalismo, XV-XVIII secolo - Tomo I, Le strutture del quotidiano, Torino, Einaudi, 1982), oppure che se parliamo di "denaro, vale a dire città" (Braudel; ivi). Con questo, non si afferma un'identità fra città, capitalismo e denaro, come se si affermasse un'identità trans-storica di ciascuno dei fenomeni con sé stesso. La città  premoderna e quella moderna sarebbero la stessa cosa; il capitalismo nascerebbe nel neolitico ed il denaro sarebbe sempre stato capitale. In altre parole, saremmo sulla buona strada per non capire niente delle città, né del capitalismo, né del denaro. Poche cose sono tanto disastrose, concettualmente, e ideologicamente conseguenti quanto la retro-proiezione delle categorie e dei fenomeni specificamente moderni (come il lavoro, il denaro, il capitale, il mercato, ecc.) su tutte le società del passato, e la loro ipostatizzazione come dati della "natura umana".
Ora, il fatto per cui la città non è un fenomeno specificamente moderno, non significa che possiamo assumere per essa una medesima identità trans-storica che si sviluppa a partire dal neolitico. Questa comprensione ideologica positivista, che si limita a constatare la continuità storico-empirica dell'artefatto urbano e la sua inerzia materiale, non arriva a vedere le città niente che non sia un mucchio di pietre, mattoni e cemento. Contro questo positivismo banale, non è del tutto inutile ribadire la distinzione classica fra la città vista come associazione umana - civitas - e la città come luogo e artefatto fisico - urbs. Si impone, tuttavia, una correzione fondamentale all'interpretazione moderna, tendenzialmente politicista, del concetto di civitas, che non vede altro se non le successive forme politiche dell'associazione umana, scelte consapevolmente e senza alcun presupposto. Gli è che così si elude il carattere inconscio delle forme di integrazione e di coscienza sociale fino ad oggi esistenti e delle corrispondenti "matrici aprioristiche" (Robert Kurz) autonomizzate della percezione e dell'azione umana; quello che Marx tentò di catturare con il suo concetto di "feticismo". Questo momento feticista era infatti palesemente presente nel significato originale del concetto romano di civitas, che esaltava proprio il carattere trascendentale ed aprioristico di ogni struttura sociale romana, in quanto vincolo sociale metafisico al di sopra dei cittadini, e che, fra le altre cose, si traduceva in celebrazioni religiose specifiche all'atto sacro della fondazione delle città, la maggior parte delle quali ancora oggi esistenti. Quello che forse bisogna assumere rispetto alla distinzione civitas/urbs è che si tratta, in fondo, della differenza fra il processo (sociale) ed il risultato (materiale) intrinseco all'urbanizzazione, in cui il primo è ben lungi dall'essere veramente cosciente per i propri agenti, e il secondo sopravvive storicamente alle forme di integrazione sociale che gli hanno dato origine
Ma in che modo questo ci può aiutare a comprendere la relazione fra le città e lo sviluppo storico del capitalismo? Credo che lo si debba fare per mezzo di un approfondimento di quattro problemi: in primo luogo, bisogna fare una distinzione molto chiara fra le città pre-capitaliste e quelle capitaliste, sia nelle loro differenti forme sociali feticiste che nelle rispettive forme urbane; in secondo luogo, il processo storico della costituzione del capitale, ossia, il problema della "transizione dal feudalesimo al capitalismo" ed il ruolo delle città in tale processo; in terzo luogo, la logica ed il funzionamento interno del capitalismo "che si muove sulla sua propria base" (Marx), ossia, la territorializzazione progressiva del capitalismo come "società del lavoro" e come "modo di produzione basato sul lavoro" (Marx), soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo, che si è tradotta nella "esplosione urbana" dell'ultimo secolo; ed in quarto luogo, l'espressione territoriale della crisi globale nel sistema urbano mondiale. Naturalmente non posso approfondire qui tutte queste questioni; ma posso cercare di affrontare un po' meglio i problemi e soffermarmi un po' di più su quelli in cui la retroproiezione delle categorie moderne è più comune.
Uno degli anacronismi ricorrenti è quello di cercare di spiegare l'origine delle città a partire dal "mercato". In questo modo, chiaramente ideologico, Jericho (8.000 a.C.) e Catal Huyuk (7.500 a.C.), o quanto meno Ur (3.800 a.C.) ed Uruk (4.000 a.C.), si distinguevano già come importanti mercati o addirittura come importanti luoghi di "produzione semplice di merci". Con diversa enfasi, quest'idea appari in autori differenti come Braudel o Jane Jacobs. E' chiaro che in questo modo si parli anche di esistenza di lavoro, denaro, valore e capitale. E così anche il marxismo tradizionale ha partecipato a questa ontologizzazione delle categorie moderne, cercando di dimostrare empiricamente le tesi di Engels sul "ruolo del lavoro nella trasformazione della scimmia in uomo" e che la "legge del valore" ha "validità economica generale", almeno da "cinque o sette millenni" (Engels). Per tutto questo, sono sempre stati svalutati e messi in minoranza i tentativi moderni di spiegare la genesi delle prime città senza ricorrere alle categorie di mercato, merce, lavoro, ecc., come quello di Rykwert (1988) o di Mumford (1998), che sottolineavano il carattere originariamente religioso delle prime occupazioni umane, incluse quelle a livello di forma urbana. Tuttavia, anche nei testi fondanti della comprensione moderna dell'origine delle città, continuano ad apparire indizi che comprovano il carattere feticista specifico delle società premoderne e della loro matrice religiosa: l'archeologo marxista Gordon Childe, per esempio, nel suo saggio ormai classico, "La rivoluzione urbana", constata che uno dei dieci criteri distintivi delle prime città è quello per cui "ciascun produttore primario pagava - a partire da una piccola eccedenza che riusciva ad estrarre, da solo con il suo ancora molto limitato equipaggiamento tecnico - una decima, o una tassa, da versare ad una divinità immaginaria, o ad un re divino, che così concentrava l'eccedente. Senza una tale concentrazione, dovuta alla bassa produttività dell'economia rurale, nessun capitale effettivo sarebbe stato disponibile" (Childe). Nonostante gli evidenti anacronismi per cui parla di "economia", "decima", "imposta" e capitale" già nel periodo neolitico, Childe non manca di constatare che il destinatario di questa quota di eccedenza materiale è un'entità trascendente o un essere umano divinizzato, cosa che si dimostra essere un vero e proprio problema per il suo intendere la storia come "lotta di classe". Questa personificazione di un principio trascendente, che caratterizza la forma religiosa e che attraversa tutta la struttura sociale delle società premoderne, è sopravvissuta, con maggior o minor intensità, fino alla costituzione del moderno mondo capitalista. Solo che in questo, il principio sociale aprioristico non si trova più personificato in nessun essere umano, ma è piuttosto oggettivato nelle merci e nel denaro (Kurz). E la storia di questa trasformazione continua nella territorializzazione.
Nonostante le numerose differenze tra le diverse città premoderne, c'è un elemento comune che, seppure non sia assoluto, le distingue profondamente, tutte quante, dalle città moderne: le mura. Vari storici hanno richiamato l'attenzione su quest'aspetto, ma sembra che le loro rispettive conclusioni sono ben lontane dall'essere state esplorate a sufficienza. La stragrande maggioranza delle città premoderne avevano delle mura che le circondavano; le eccezioni sono rare e sono state individuate e spiegate, sia a partire dalle condizioni naturali delle città stesse, o delle regioni dove erano situate (ad esempio, Venezia, o l'Inghilterra, o il Giappone), sia a causa dell'esistenza di una teocrazia stabile, o di un potere militare talmente travolgente da rendere superflue le mura (ad esempio, l'antico Egitto, Sparta). In tal senso, per le società premoderne era assolutamente impensabile che una città non fosse circondata da mura. Non è quindi per caso che le parole che in inglese, tedesco, olandese, russo e cinese designano oggi "città", originariamente designassero "muro" o similia (recinto, muraglia, bastione, ecc.). La comprensione usuale è che le strutture delle mura medievali abbiano continuato ad esistere fino all'avvento del mondo moderno e, a partire dal XIX secolo, siano state progressivamente demolite per dar luogo alle espansioni urbane moderne. Questa storia è tuttavia molto più complicata e penso che la cosiddetta "accumulazione primitiva del capitale" possa aiutare a comprenderla un po' meglio.
A proposito della cosiddetta "transizione dal feudalesimo al capitalismo", storicamente delimitata dai secoli XIV e XVI, ci sono due polemiche che oggi vengono considerate classiche ai fini della comprensione del ruolo della città nella costituzione capitalista: il "Dibattito Dobb-Sweezey" sviluppatosi nel decennio del 1950, e che è stato esclusivamente intra-marxista; ed il cosiddetto "Dibattito Brenner", sviluppatosi nella seconda metà degli anni 1970 e con un carattere teorico e disciplinare più ampio. Entrambi i dibattiti, in maniera più o meo esplicita, avevano come sfondo della discussione la città, senza però prestare troppa attenzione alle profonde trasformazioni urbane di quel periodo. Quello che era in causa, ed ancora una volta in forma anacronistica, era la città come mercato, e nient'altro. Tuttavia, una questione, più volte emersa in entrambi i dibattiti ma mai veramente approfondita, era la necessità, per i padroni, di nuove entrate per alimentare le guerre di quel periodo. E qui si vede come la città fosse assai più che uno sfondo.
Ora, prima di tutto bisogna tenere a mente che quello che è in questione in termini categoriali, nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, è il processo storico della "trasformazione del denaro in capitale" (Marx). Si sa che il denaro esisteva prima del capitalismo, ma in nessun modo la sua funzione può essere considerata a quella che disimpegna nel capitalismo. Nelle società pre-moderne, il denaro possedeva una funzione religiosa, o di intermediario delle relazioni di reciprocità e di obbligazione personale (doni, contro-doni, offerte, sacrifici, ecc.), anch'esse spiccatamente religiose, che in nessun modo possono essere equiparate alla logica autonomizzata della "ricchezza astratta" (Marx) e della "incarnazione del lavoro astratto" (Marx) che è specifica del capitalismo. Molti storici ed antropologhi, come Karl Polanyi (2001), Jacques Le Goff (2003) e Marcel Mauss (2001), hanno fornito degli indizi che vanno nel senso di tale differenziazione, ma senza che questo venisse studiato in forma sistematica, come ha cercato di fare Robert Kurz nel suo recente "Denaro senza valore". Perciò, ugualmente, in nessun modo si può dire che le società premoderne possedevano una "economia"; un'osservazione che è già stata fatta da molto tempo da Moses Finley (1980), per quel che riguarda l'antichità greco-romana, e più ampiamente da Polanyi per mezzo della sua teoria di "disincrostamento" dell'economia capitalista. L'economia, come sfera autonomizzata e svincolata dalle relazioni sociali, e caratterizzata da un mercato impersonale ed anonimo, è qualcosa di specifico della società capitalista. E quello che qui è in causa è il denaro come presupposto e come finalità della produzione, come "dio delle merci" (Marx), come valore che valorizza sé stesso, ossia, capitale.
Quello che le ricerche più approfondite hanno potuto dimostrare essere assolutamente decisivo per òa "trasformazione del denaro in capitale", sono le esigenze che si sono imposto a partire da quella che la storiografia chiama la "rivoluzione militare", vale a dire, i processi storici strutturali associati all'invenzione delle armi da fuoco nel XIV secolo, e la formazione delle macchine militari e statali moderne che hanno garantito la supremazia dell'Europa dell'uomo bianco, nei secoli a seguire (Kurz). E' stato, da un lato, il cannone (inventato nel XV secolo) e la formazione la manutenzione degli eserciti di mercenari (che sono anche i primi veri e propri salariati) e, dall'altro lato, le brutali e corrispondenti trasformazioni architettoniche nelle fortificazioni delle città che, insieme, diventarono un vero e proprio mostro insaziabile di risorse, promuovendo così la brutale monetarizzazione di tutta la riproduzione sociale e la formazione del capitale.
Per quanto concerne l'artiglieria, abbiamo una prima corsa all'armamento, segnata dalla domanda crescente di metalli, dallo sviluppo delle industrie mineraria e siderurgica e dalla comparsa di una proto-industria delle armi da fuoco. Per quel che riguarda le fortificazioni urbane, abbiamo dei cambiamenti altrettanto notevoli: con i cannoni, le vecchie mura medievali cessano di svolgere la loro funzione; vengono erette nuove mura, più basse ma sostanzialmente più larghe, e viene aumentato lo spazio di manovra interno, al fine di premettere la dislocazione dei cannoni a difesa della città; alla fine, lo spazio richiesto dalle nuove mura era quasi sempre superiore all'area vera e propria delle città (Mumford; Kostof). Queste nuove fortificazioni, con la ben nota configurazione a stella (il cosiddetto tracciato italiano), e di cui l'esempio più conosciuto è forse la città italiana di Palmanova, erano estremamente difficili da costruire, e ancor di più da modificare. Richiedevano una mobilitazione di risorse in tutto e per tutto equivalenti a quelle della proto-industria dell'armamento, e che insieme provocarono in tutt'Europa la monetarizzazione generalizzata di tutte le imposte e la corrispondente "deportazione" della popolazione col fine di alimentare la crescente macchina statale militare svincolata dalla riproduzione sociale. Non stupisce che Marx constati: "Ai tempi dell'avvento della monarchia assoluta, con la trasformazione di tutte le imposte in imposte in denaro, il denaro appare di fatto come il Moloch cui viene sacrificata la ricchezza reale" (Marx). Nel caso delle mura, il loro ruolo era duplice: da una parte, servivano da difesa rispetto all'artiglieria pesante; dall'altra parte, assolvevano allo stesso tempo un ruolo, in quanto barriera tariffaria allo sperpero di denaro. Fu così, dall'alto verso il basso e in forma sanguinosa, che il denaro divenne la misura di ogni produzione e riproduzione sociale, e fu attraverso questo processo violentissimo che le città-capitali e quello che noi moderni chiamiamo "Stato" ed "economia" vennero al mondo. Con essi arrivò anche "il lavoro libero e lo scambio di questo lavoro libero col denaro al fine di riprodurre e valorizzare il denaro" (Marx).
Ma come Marx ebbe anche a dire: "E' nella natura del capitale muoversi oltre tutte le barriere spaziali". In questo senso, le nuove mura non tardarono perciò a rivelarsi esse stessa un ostacolo alla piena costituzione del capitalismo. Da un lato, la formazione dello Stato moderno aveva reso superflua la loro funzione difensiva; dall'altro lato, la dissoluzione dei vincoli personali associati alla proprietà fondiaria feudale, a causa della trasformazione del suolo in merce, aveva promosso un un significato completamente monetizzato di tutto quell'ampio spazio occupato dalle mura in centinaia di città europee. Il segnale di questo cambiamento lo diede Parigi. La presa della Bastiglia, che segna "ufficialmente" l'inizio della Rivoluzione francese, fu preceduta, due giorni prima, da un evento forse più significativo: una rivolta popolare generalizzata contro le mura, esclusivamente doganali, erette da Luigi XVI (dette della Ferme Générale), progettate dall'architetto Claude-Nicholas Ledoux, e che culminò nel saccheggio e nell'incendio degli uffici doganali.

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Finora, ci siamo limitati, geograficamente, a quello che avveniva fuori e al limite delle città. Ma il processo di costituzione del capitale venne promosso, parallelamente, anche in quello che avveniva dentro le città. Considerando che il valore è una forma di "ricchezza astratta" basata sul "dispendio di forza lavoro umana senza riguardo per la forma in cui viene spesa" (Marx), la cui grandezza viene misurata in tempo, è evidente che la temporalità diventa una componente fondamentale della costituzione del capitalismo. A partire dagli indizi forniti dagli storici medievalisti, lo storico americano Moishe Postone ha aperto la strada per una promettente interpretazione critica della temporalità moderna. Dopo la loro crescita demografica nei secoli XII e XIII, le città medievali cominciarono a sviluppare una crescente necessità di regolamentazione del tempo sociale. Alcuni autori affermano che furono le necessità materiali causare dalla densità e dalla complessità della vita urbana che portarono allo sviluppo di orari prestabiliti; Postone afferma, tuttavia, e a nostro avviso giustamente, che la nascita della forma temporale astratta, caratteristica della società moderna, non può essere adeguatamente compresa soltanto in termini della natura della vita urbana in sé. In fin dei conti esistevano già grandi città in altre parti del mondo ben prima dello sviluppo degli orari regolari nelle città medievali dell'Occidente; e inoltre, fino al XIV secolo, il giorno di lavoro nell'Europa medievale continuava ad essere misurato in forma naturale secondo il tradizionale dall'alba al tramonto, istituito a partire dal "tempo della chiesa" (horae canonicae). In questo senso, il motivo per la comparsa dell'orario regolare dev'essere attribuito ad una forma socio-culturale particolare, e non ad un fattore materiale generale, come la concentrazione urbana o l'avanzamento tecnologico.
Per Postone, le campane del lavoro sono state un'espressione di una nuova forma sociale che comincia ad apparire alla fine del Medioevo, in particolare nelle città che si erano specializzate nella produzione di tessuti, come le Fiandre. In una prima fase, il lavoro veniva pagato a giornata dagli stessi mercanti di tessuti; questo significò che nel corso della crisi economica della fine del XIII secolo, che colpì profondamente la tessitura, i lavoratori di questo settore divennero estremamente vulnerabili ad una situazione di povertà, arrivando a richiedere essi stessi l'allungamento della giornata lavorativa, oltre il tradizionale giorno dall'alba al tramonto, in modo da poter aumentare i loro salari - non dimentichiamo che allora la ricchezza era misurata dalla produzione assoluta di tessuto. Secondo Le Goff, è proprio in questa fase, e come forma di controllo da parte dei commercianti sulla "reale" dimensione della giornata lavorativa, che si moltiplicarono le campane municipali di lavoro nelle diverse città medievali europee, ponendo fine così al dominio storico del tempo della Chiesa. Non ci volle molto tempo perché dalle campane si passasse ad orologi meccanici, oltre che ad orari variabili. Nel corso della seconda metà del XIV secolo si diffusero in tutto il mondo urbano europeo diverse torri municipali con orologi ad una sola lancetta, che lentamente passarono a regolare tutta la vita quotidiana delle città. Alla fine di quel secolo, la temporalità astratta ed omogenea delle 24 ore serviva già da ordinatore temporale per i diversi lavori concreti nei principali centri urbani europei, e così la città stessa della fine del Medioevo acquistava un nuovo significato. Come ha constatato il medievalista Aron Guretvich: "Abbiamo detto che la città si era appropriata del suo proprio tempo e questo è vero, nel senso per cui il tempo era sfuggito al potere della Chiesa. Ma, come contropartita, è stato proprio anche nella città che l'uomo ha smesso di essere padrone del tempo. Avendo ricevuto, effettivamente, la possibilità di scorrere senza tener conto degli individui e degli eventi, il tempo ha imposto la sua propria tirannia, alla quale gli uomini hanno dovuto sottomettersi. Il tempo li ha soggiogati al proprio ritmo, li ha forzati ad agire più rapidamente, a sbrigarsi, a non perdere un solo istante" (Gurevitch). Questa "tirannia del tempo" è in fondo la tirannia della "valorizzazione del valore" (Marx) in quanto forma sociale feticista emergente, intermediata dalla parallela coercizione statale e dalla macchina militare svincolata. Quest'interpretazione ha potuto anche dare un nuovo significato alla constatazione di Le Goff per cui "il secolo dell'orologio è anche quello del cannone" (Le Goff).
Ma come ha scritto Kurz, prima di generalizzarsi a tutta la vita sociale, "il tempo ha cominciato a diventare astratto, indipendente e assoluto solo in uno spazio sociale determinato, che è precisamente lo spazio funzionale svincolato dell'economia d'impresa" (Kurz). Nell'ambito del processo storico della valorizzazione del valore, emerge così una dissociazione sociale, temporale e spaziale delle attività produttive in rapporto a tutte le altre attività e momenti della riproduzione sociale quotidiana, le quali passano d'ora in avanti ad essere viste come un ostacolo alla "produttività", un concetto questo che cominciava ad emergere allora. Non si tratta perciò della definizione di un mero spazio di produzione di beni materiali; si tratta innanzitutto di uno spazio di valorizzazione del lavoro astratto e della "ricchezza astratta". La rilevanza storico-sociale di questo disaccoppiamento si rende più evidente nella separazione lavoro-residenza, anche se in realtà non si tratta di una separazione vera e propria; gli è che non ci troviamo davanti al semplice separarsi di due cose che erano unite, ma ci troviamo davanti alla costituzione di entrambe le cose come cose separate. La vita quotidiana premoderna è un tutto sociale integrato, nel quale non esiste propriamente né lavoro né residenza; solo il capitalismo ha costituito tali sfere svincolate che si presuppongono in maniera reciproca, allo stesso tempo in cui a ciascuna delle due cose viene attribuita una specifica connotazione sessuale: gli uomini per lo spazio di lavoro e di valorizzazione della "ricchezza astratta", e le donne per gli spazi domestici e del consumo materiale-sensibile delle merci.
Quello che progressivamente si è generalizzata e consolidata, soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo, è stata una definizione della città come spazio di concentrazione e di valorizzazione del lavoro astratto. In tal modo si assiste ad una generalizzazione della separazione sociale e speciale delle pratiche umane, che si espande dalle fabbriche allo spazio urbano, ed il cui primo esempio è dato forse dai lavori di Hausmann a Parigi. Qui possiamo cominciare già a parlare di capitalismo in quanto totalità sociale costituita, come "società del lavoro", o come diceva Marx, del funzionamento del capitalismo "sulla stessa sua propria base".
Ora, la forma temporale della misura della "ricchezza astratta" implica una relazione contraddittoria e dinamica tra valore e lavoro astratto, fra ricchezza astratta e produttività materiale. Mediata dalla concorrenza, questa contraddizione inerente alla "valorizzazione del valore", implica una traiettoria storica e geografica del tutto particolare: una produttività materiale crescente per mezzo di unità temporali sempre più piccole ed una corrispondente necessità di espansione del mercato. Ossia: la "valorizzazione del valore" è un processo sociale dinamico ed oggettivo per mezzo di una crescente intensità temporale (produttività) ed una progressiva espansività geografica (mercato mondiale). Questo processo imprime alla modernità una dinamica interna, oggettiva ed incosciente, del tutto sconosciuta nelle società premoderne. In quanto in queste società il principio sociale metafisico si manteneva trascendente e funzionava come matrice religiosa personificata, di riferimento e di stabilizzazione sociale, mentre la metafisica sociale della "valorizzazione del valore" è un processo sistematico e contraddittorio di oggettivazione in merci, che si rende così immanente al mondo e gli imprime una dinamica storica di brutale trasformazione sociale cieca, in cui è evidentemente inclusa l'urbanizzazione moderna e l'attuale sistema urbano mondiale.
E' evidente che alla base di tutto questo si trova la basilare contraddizione insanabile della relazione di capitale: da un lato, essa ha bisogno di assorbire lavoro astratto nella maggior quantità possibile; dall'altro lato, la concorrenza crea un aumento di produttività attraverso cui la forza lavoro diventa superflua e viene sostituita dal capitale oggettivato nella forma del macchinario. Questa contraddizione ha un ben noto meccanismo di compensazione che, detto in forma semplificata, si esprime nella capacità del sistema, in ogni aumento di produttività, di assorbire quantità assolute di forza lavoro maggiori rispetto a quelle che sono state eliminate attraversi la razionalizzazione o l'introduzione dei macchinari. Un esempio di questo è stato il fordismo: nello stesso tempo in cui la catena di montaggio riduceva il tempo di lavoro necessario ad ogni merce, permetteva anche l'assorbimento di maggiori quantità assolute di forza lavoro. Il risultato è stato una "società del lavoro" a tutto vapore, l'inizio di un'urbanizzazione mondiale generalizzata e la progressiva svalorizzazione generalizzata delle merci inizialmente vendute come beni di lusso (automobili, frigoriferi, lavatrici, ecc.). Risalgono a questo periodo le tesi dell'urbanistica funzionalista del CIAM, dove è evidente la metafisica del lavoro e la temporalità astratta della valorizzazione del valore, soprattutto in Le Corbusier, per cui "la città è uno strumento di lavoro" (Le Corbusier) e per cui la pianificazione urbana deve "contribuire alla nascita della gioia del lavoro" (Le Corbusier); dove si sostiene che "la legge delle 24 ore sarà la misura di qualsiasi sviluppo urbanistico" e che "la città che dispone di velocità, dispone di successo".
E' ovvio che il meccanismo di compensazione interno della traiettoria del capitalismo può essere efficace solamente quando la velocità d'innovazione dei prodotti è superiore alla velocità d'innovazione nel processo produttivo. Ma nel contesto della terza Rivoluzione industriale della microelettronica, la relazione per la prima volta si inverte e la scientificazione delle forze produttive rende superflua più forza lavoro di quanta se ne possa assorbire. E qui non si tratta più soltanto di individui, ma di regioni, paesi e continenti interi. Il lavoro astratto, che fin qui aveva funzionato come forma feticista di integrazione sociale, rivela quello che non ha mai smesso di essere: una violentissima forma di esclusione sociale. Questo è evidente da molto tempo nell'urbanizzazione del continente africano che, incapace di concorrere nel mercato globale, presenta fenomeni di un iper-urbanizzazione miserabile, senza la corrispondente creazione di posti di lavoro, contrariamente a quello che si è verificato nella storia dell'urbanizzazione europea. Ma è anche molto tempo che i fenomeni di disoccupazione strutturale di massa hanno raggiunto anche le megalopoli dei paesi del centro del sistema mondiale del lavoro astratto. E se a questo aggiungiamo l'urbanizzazione finanziata dal capitale fittizio ed il costo crescente di manutenzione di una struttura sociale urbana improduttiva dal punto di vista del capitale - essa stessa garantita per mezzo del debito pubblico - appaiono esserci reali motivi per mettere in discussione il sistema urbano capitalistico mondiale. Dopo "l'esplosione urbana" degli ultimi due secoli, ora ci sono seri rischi che molte città divengano vere e proprie "polveriere".

- Bruno Lamas -

fonte: EXIT!


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