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Il Canto del Cigno: Shakespeare, Vita e Teatro

Creato il 14 aprile 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Il Canto del Cigno: Shakespeare, Vita e Teatro

Il Teatro Dehon di Bologna, dopo una stagione tra le più interessanti, variegate e complete degli ultimi anni, ha chiuso il programma dell'iniziativa "Salva Teatro" con un lavoro davvero tra i più coinvolgenti e intriganti dell'annata: Il canto del cigno di Anton Čechov per la regia di Piero Ferrarini, con Aldo Sassi e Guido Ferrarini nei ruoli, rispettivamente, del "suggeritore" e del "vecchio attore".

Un attore di successo, dopo i bagordi alcolici succedutisi a una serata a lui dedicata, si addormenta e viene dimenticato in camerino. Svegliandosi in preda ad un gran mal di testa il vecchio attore si accorge di non essere solo; come un fantasma si materializza, infatti, quello che, da più di vent'anni, è il suo oscuro suggeritore. Nel buio di un teatro le cui porte sono sbarrate dall'esterno, dopo i primi momenti di totale smarrimento, e qualche incomprensione iniziale, la fredda notte diviene un'occasione unica, per lui e per il suo compagno d'avventura, per riflettere sulla vita, sugli anni che passano, sull'arte dello stare in scena facendo rivivere alcuni momenti di grandi testi shakespeariani, in quella che, passo dopo passo, si trasforma in una struggente ed appassionata interpretazione che sembra, quasi, essere il suo doloroso e sofferto "canto del cigno".

Lo spettacolo inizia a scartamento ridotto, su ritmi invero lenti, che la complessità e l'importanza dei temi trattati rendono quasi naturali ed inevitabili, ma, con il dipanarsi delle argomentazioni, l'attenzione diviene totale e la partecipazione dello spettatore, seppur sofferta, diviene assoluta e sentita. Siamo di fronte ad un testo che si può considerare come la summa del rapporto tra il teatro e la vita, passando attraverso le sottili sinergie tra arte e realtà, tra verità e finzione, tra inganno e sentimento.

L'attore è uomo o piuttosto l'uomo recita? Si può scindere la vita dell'attore tra il suo essere uomo, di carne ed ossa, costretto a vivere la vita di tutti giorni, e il suo essere artista, destinato sempre a recitare, tessendo trame ed inganni per affabulare lo spettatore, attraverso la trasposizione scenica di ogni più intimo sentimento e sensazione?

Tra un dialogo tratto dall' Amleto e un monologo del Re Lear, tra una citazione di Shakespeare e l'altra, i due protagonisti finiscono per guerreggiare riversandosi addosso venti anni di incomunicabilità. Le problematiche dell'uomo si scontrano con le prerogative dell'arte, si finisce così per assistere quasi ad una seduta psicanalitica in cui i pazienti sono il teatro e lo spettatore, con i loro ruoli e le rispettive prerogative, e la medicina è, sorprendentemente, ciò che li unisce e li interseca: lo spettacolo stesso! La rappresentazione "ingannevole" della realtà è l'unica in grado, elevando a scibile i comportamenti e le sensazioni di tutti i giorni, di svolgere quella funzione catartica, nata nel teatro greco, e che, con il tempo, si è attenuata, sostituita da un'altra forma di teatro, meno educativo e più attento all'aspetto ludico.

Si medita, attentissimi, su tanti temi, tutti attualissimi, ma di difficile e non univoca risoluzione, come in tutti i casi in cui al centro del contendere c'è l'uomo, sviscerato nella sua totalità come essere pensante, ma soprattutto come essere senziente, irrisolto nei suoi dubbi, perennemente alla ricerca di sé stesso. E quale strumento migliore del teatro può esserci per aiutarlo nella sua ricerca? Solo sul palcoscenico lo spettatore può vedere e vivere i suoi problemi, potendone cogliere e ricevere le possibili soluzioni senza patirne le sofferenze e le conseguenze.

Alla fine l'immagine che finisce per passare è quella dell'attore chiamato a dover recitare una doppia parte, quella di sacerdote del "Dio" teatro e quella di dottore del "malato" spettatore, che si porta seco il grave rischio di farlo finire schiacciato dall'immane compito, confuso com'è tra le due funzioni, tanto che anche il migliore, e il più bravo, degli attori, può essere un "pessimo" uomo.

Si pensa molto, si ride qualche volta, ma l'empatia tra i protagonisti in scena e gli astanti in platea diviene pressoché assoluta, segnando un punto decisivo a favore dell'autore, ma soprattutto degli artisti che hanno saputo rendere tangibile uno dei grandi dilemmi che da sempre arrovella l'uomo.

Gli applausi finali sono calorosi, ma hanno questa volta un sapore ben diverso, quasi più sentiti, intimamente, per effetto di una ritrovata catarsi.


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