È stato un rischio piuttosto alto quello corso da Paolo Virzì con “Il Capitale Umano”.
Scegliere di mollare il genere con il quale si è sempre trovato a suo agio, ovvero la commedia, e farlo soprattutto nel momento di maggior splendore, dopo i successi raccolti con “La Prima Cosa Bella“ e “Tutti i Santi Giorni”, è stata da parte sua una dimostrazione senz'altro di grande coraggio ed enorme voglia a (ri)mettersi in gioco.
Con il nuovo lavoro allora passa al thriller, adattando liberamente (con l'aiuto dell'amico di una vita Francesco Bruni e Francesco Piccolo) il romanzo omonimo di Amidon Stephen, trasferendone svolgimento e ambientazione dal Connecticut al nord Italia, senza perdere assolutamente di vista l’attuale situazione del nostro paese, la quale è elemento fondamentale per il corso degli eventi e per il destino dei personaggi.
Diviso in tre capitoli - dedicati ai tre diversi protagonisti - più un capitolo di chiusura - incaricato di sciogliere il nodo principale aperto nel prologo - “Il Capitale Umano” quindi non ha nulla a che vedere con il Virzì natio e più conosciuto, pone davanti ai nostri occhi una sua versione inedita, curiosa e ansiosa di cimentarsi come agli antipodi, con ciò che ama ma che ancora non è in grado di padroneggiare. La notizia è che, nonostante questo, la percezione dell'inesperienza e di esperimento non viene mai assorbita dal suo progetto, che infatti scorre con fluidità magistrale, trascinato da un racconto solidissimo e da un cast incredibilmente capace di convincere trasversalmente senza macchiarsi di alcuna sbavatura (Fabrizio Bentivoglio è fenomenale).
Il punto di vista di Virzì per l’occasione dunque si sposta, staccandosi dalla gente semplice e popolare e dai buoni sentimenti per appoggiarsi a scrutare i sentimenti cattivi, i comportamenti e gli atteggiamenti di quella porzione di ricchi e pseudoricchi, ansiosi di aumentare le proprie liquidità o di estendere il potere a discapito chiaramente di chiunque vaghi lungo il loro medio-lungo raggio di azione. Imprenditori in cerca di liquidità, finanzieri con la voglia di salire gradini altissimi, vite spezzate da scorciatoie prese e da strade lasciate, fatalità inarrestabili: c'è un ritratto completo corredato da una cornice di umorismo a tinte dark che non si può ignorare ne "Il Capitale Umano", eppure a prevalere alla risata, che comunque scappa ripetutamente, è quel senso di disgusto specchio dei tempi che ricalca una (alta) borghesia depennata da morali e divenuta egoista e crudele, sia verso il prossimo che verso sé stessa.
Senza badare troppo alla teorica - sulla quale Virzì ritaglia dei comodi abiti per la sua creatura ma a cui non ha intenzione di dar troppo peso - a restare indelebile ne "Il Capitale Umano" è tuttavia quel senso di grottesco e surreale dal retrogusto vero e freddo, ghiacciato quasi, travolgente e inarrestabile da scacciar via definitivamente anche la più piccola forma di calore naturale, nata dal nulla. Proprio lei, che in fin dei conti avrebbe voluto solamente fare del bene.
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