Le polemiche sulla rappresentazione distorta della Brianza (che risulterebbe in questo film falsa e macchiettistica) non vale nemmeno la pena di considerarle: la ‘povna cita e passa oltre. Perché Il capitale umano, viceversa, merita di essere considerato per quello che è, e anche vorrebbe essere. Vale a dire: la caduta di quegli ideali di utopia (modesta, domestica, eppure proprio per questo che sembrava lì, di fronte a noi, abbordabilissima) che caratterizzarono gli anni Novanta (quelli di Clinton e il primo Tony Blair, per intendersi, quelli della social-democrazia sub specie liberal che seguì il crollo del muro di Berlino). Non andò così, e lo sappiamo tutti. Genova (per noi), e poco dopo New York (per tutti) furono le due date che, nel giro di poche settimane, arrivarono a chiudere per davvero il millennio, proiettando l’Italia, insieme al mondo, sulla rotta della crisi.
Di questo parla, Virzì, in questo film, che parla italiano, ma la sceneggiatura la va a prendere in America (da questo romanzo), a sottolineare la globalità di una situazione che è con ogni evidenza collettiva. Passano così, in una storia raccontata in 4 capitoli (3 + una conclusione), a focalizzazione multipla, gli stessi eventi di una trama che vuole farsi poliziesca. Un giallo metafisico dei nostri giorni: quelli nei quali (citando Michael Holquist): “it is not dead, but life, that must be solved”.
Si parla di grandi finanzieri, fondi di investimento e (dunque) speculazioni economiche; e del cinismo che soggiace al mercato delle grandi borse: “Avete scommesso sulla rovina di questo paese, e avete vinto” – è il je accuse che Valeria Bruni Tedeschi (Carla) rivolge a Fabrizio Gifuni (suo marito Giovanni), a fine film e fine corsa, ma il grande broker ha ragione di zittirla: “Abbiamo vinto, ci sei anche tu”, ribatte. E in fondo il significato della storia è tutto qui.
Tutto qui, ma bello. Ben narrato (nonostante il capitolo 1 contenga qualche lungaggine di troppo, e un Bentivoglio che parla lombardo) e con un finale intelligente. Mentre guardava, alla ‘povna è venuto in mente un libro (e un film) che fu crudele fotografia degli anni Ottanta (Il falò delle vanità di Tom Wolfe, o di De Palma, a seconda dei punti di vista). E non le sembra un caso che Virzì (che non è mai stato un genio, ma nello stesso tempo ha occhio) abbia deciso, consapevolmente, di ripartire dagli States. All’epoca, la parabola di Sherman McCoy (il protagonista del romanzo), poteva essere solo amara e discendente (e lui, peraltro, pur restando esistenzialmente esecrabile, non aveva poi, nel merito, del tutto torto). Qui invece, se si resta fermi alla lettera, vincono (quasi) tutti. Ed è proprio questo lieto fine eticamente così ingiusto a rendere la storia (raccontata, certo, ma anche quella che il mondo manda in scena adesso, con noi protagonisti), anche più amara.
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