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Alla sua uscita al cinema la poca voglia, la mancanza di accompagnatori ma soprattutto la poca voglia non mi fecero andare a vedere Il Capitale Umano.
E sì che l'ultimo film di Paolo Virzì, quella romcom all'italiana particolarmente romantica che è Tutti i santi giorni l'avevo particolarmente amata.
Ma niente.
A distanza di qualche settimana, con le critiche più che positive che si ammucchiavano, con quei siti di riferimento che lo promuovevano, con amici fidati che mi invitavano alla visione, niente, la voglia non saliva, il naso continuava a storcersi.
Passati i mesi, archiviati commenti entusiastici, arriva il David di Donatello, soffiato al premio Oscar La Grande Bellezza, con tanto di polemiche e partiti tra i due Paolo in gara.
Ma niente, anzi, l'amore romano per Sorrentino e Servillo mi facevano vedere ancora meno attraente quella Milano bene.
Siamo a pochi mesi fa, quando la notizia che sarà proprio Il Capitale Umano a rappresentarci agli Oscar edizione 2015, riaccende un piccolo campanello, la voglia del recupero un po' si anima, almeno per dovere di cronaca e di completezza, visto che a breve sarà tempo di tirare le somme di questo 2014 cinematografico.
E allora ti metti lì, nella serata libera, armata di gatto-coperta-divano, e premi play.
Ti ritrovi in Brianza, nelle ville extralusso dei milanesi bene, con il loro accento strafottente prima che fastidioso.
E ti trovi davanti un film di quelli che graffiano, che lasciano il segno non solo per la storia che raccontano ma soprattutto per come la raccontano.
Per ricostruire chi e come ha investito un ignaro e innocente ciclista, Virzì compone un film a quattro tempi, con tre protagonisti, e solo seguendoli, passo passo, ogni pezzo finisce nel posto giusto, ad ogni azione viene ricondotta la sua conseguenza.
Abbiamo Dino, uno che nella Milano bene vorrebbe tanto entrarci, e che vede nel fidanzato della figlia il biglietto di ingresso, tanto da addentrarsi con il suo fare viscido e finto bonaccione tra le grazie dei Bernaschi e concordare un affare che potrebbe finalmente arricchirlo. Peccato che la moglie sia incinta, e di due gemelli, e che i soldi per entrare nell'affare non li abbia.
Abbiamo Carla, moglie nevrotica e malinconica, che nasconde dietro acquisti e shopping compulsivo la precarietà del suo matrimonio e la sua vita infelice, trovando nel progetto di salvare un vecchio e storico teatro l'occasione per rinascere, per riscoprire anche un po' di amore, inevitabilmente portato a infrangersi.
Abbiamo Serena, che da sola ha più testa di tutti gli adulti presenti, che di stare con Massimiliano Bernaschi non ne ha proprio voglia, né con i suoi amici scapestrati che si divertono con i soldi di papà. E così il problematico Luca si fa interessante, il suo essere vero, anche se con tutte le difficoltà del caso, è molto più affascinante e attraente del mondo di macchinoni, droga e party a cui si è abituata.
Ma non sa che sarà proprio lei il filo conduttore della vicenda, la costante per cui tutto si possa collegare e portare a quell'incidente, a quella morte.
L'ultimo capitolo di un film ad incastro, è proprio il Capitale Umano, e quei fili li tira, mostrandoci da lontano quanto costruito, quanto lasciato e fatto.
Quello che ne esce è un ritratto impietoso di padri e madri che prima di rovinare il Paese hanno rovinato i loro figli, con la certezza che pur nella giustizia quello che si compie ha il sapore amaro dell'ingiustizia.
Nel dramma che Virzì compone, quindi, i graffi non mancano, né a quella Brianza che si è sentita mal rappresentata né ad un cinema italiano che quando si discosta dalle solite commedie esalta e fa applaudire.
Perchè come detto non è solo la storia, ben scritta e avvolgente, che lascia il segno, ma anche la maestria di come questa ti è raccontato, attraverso tempi che avanzano e tornano indietro, che scoprono, finalmente, che mostrano.
La mano esperta di Virzì si estende ai suoi attori, che danno sostanza anche ai cliché, e così l'odio verso il diverso modo di essere subdoli si fa palpabile in Fabrizio Gifuni e Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino e Luigi Lo Cascio, seppur relegati, si fanno umani e teneri, e la sibilante Valeria Bruni Tedeschi riesce a fare dei suoi difetti di attrice di nicchia i suoi punti forti.
Ma la vera sorpresa sta nei giovani, nell'esordiente e folgorante Matilde Gioli che incanta e convince come difficilmente succede da queste parti per parti simili.
Con il senno di poi, quindi, quei giorni, quelle settimane e quei mesi di poca voglia e di naso sempre più storto, sono stati spazzati via in una serata, in cui ci si è ricreduti, e si ha assistito a un film che meritatamente e immeritatamente ci rappresenta e ci rappresenterà.
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