Nessuno si aspetterebbe un film così, lontano dal solito schema politico – provinciale descritto nei suoi precedenti progetti. Paolo Virzì nella regia del suo ultimo lavoro non sembra più lui. Se ci si aspetta un’opera brillante, di riscatto, dove i protagonisti sono perlopiù personaggi di ceto sociale medio – basso, cambiate sala cinematografica e dedicatevi a una qualunque frottola d’invenzione romantica americana.
Il capitale umano stravolge la leggerezza, non solo perché da titolo si evince un forte rimando alla Comédie humaine di Honoré de Balzac, ma perché il lavoro è un complotto alla cui base è posto – similmente a una società ottocentesca – un gruppo di potere che controlla giochi di strategie economiche e finanziarie, fregandosene di tutto, irridendo gli individui che vivono su una superficie di un intero Paese.
Allo stesso tempo, pensare che il libro da cui è tratto tutto questo sia ambientato in Massachusetts, negli Stati Uniti, e ritrovarlo in una versione diversa, visiva, adattata in Brianza – con un punto di vista indiscutibilmente italiano – è una peculiarità cui io non sono abituata.
La regia di Paolo Virzì, assieme alla co-scrittura di Francesco Bruni e Francesco Piccolo, offre una testimonianza formidabile di come la qualità espressiva possa premiare sempre, poiché la forza del prodotto è racchiusa nella capacità di saper stravolgere completamente i canoni su cui si sono basati, finora, buona parte dei suoi processi creativi, da Ovosodo a La prima cosa bella, passando per Tutta la vita davanti.
La sceneggiatura è frammentata in capitoli e i punti di vista sono elaborati in un missaggio che spinge in modo costante a oscillare tra l’equilibrio di una dimensione mentale ansiogena propria e interpretazione psicologica dei personaggi.
La trama, invece, vede incastonate le classi sociali rappresentate in una piramide organizzata su: ordine di controllo – chi è posto all’apice e ha il governo monetario; gli inclini a tutto – la media e alta borghesia con mire decisionali e ambizioni altissime; il quarto stato – la povera gente vittima di soprusi e incidenti, lasciata morire e valutata sulla base del valore dei suoi affetti, senza tener conto di situazioni e provenienze, di chi è e che problematiche hanno.
Virzì pone sguardi, riflette sulla propria natura e ci pone davanti alla scelta: osservare e adattarsi all’occhio del parassita disposto a barattare il valore della sua stessa figlia? O stare dalla parte di chi si ferma al puro delle cose, senza chiedere in cambio nulla, soffermandosi sulla potenza dello sguardo e nell’intimità dell’essere?
Non mi va di spiegare il thriller in dettaglio, poiché ritengo sia solo un espediente efficace che fa da contorno a un quadro volutamente nitido, sulla nostra realtà, su cui noi siamo solo inermi e per il quale ci battiamo ogni giorno con tutta la forza che abbiamo.
La cultura è femmina, crolla a pezzi, come un teatro, è metafora di una puttana, che assume vesti e stile nella classe e nella grazia di Valeria Bruni Tedeschi. Lei tradisce se stessa, in Via Alcide De Gasperi, con un professore universitario di sinistra interpretato da Luigi Lo Cascio, che grida in maniera incessante al dilettantismo, e che ricorda un po’ la eco delle parole importanti descritte da Nanni Moretti in Palombella Rossa.
Fabrizio Bentivoglio è, invece, l’evoluzione malsana di un Sergio Castellitto di Caterina va in città.
Lo consiglio per la potenza della scena finale, per la capacità di aver selezionato attori in grado, a colpo d’occhio – con una sola comparsa – di raffigurare, come solo un gesto artigiano, il tratto di una tela su cui molti personaggi hanno manipolato le nostre esistenze fino a oggi.
Buona visione!
Tratto da:
Stephen Amidon, Il capitale umano, Mondadori, 2008
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